È finita come doveva finire: Carlo Tavecchio è il nuovo presidente della Federazione Italiana Giuoco Calcio. Il complicato meccanismo di elezione che ha portato alla vittoria dell’ex presidente della Lega dilettanti ricorda un po’ quello che si usa per eleggere il capo dello Stato: al primo giro servono i tre quarti dei consensi, al secondo i due terzi, dal terzo in poi basta il cinquanta percento più uno. Tavecchio è partito con il 60%, poi i consensi sono saliti al 63, alla fine si è affermato con la stessa percentuale. Lo sfidante Demetrio Albertini si è fermato al 34%.

In Federazione la giornata è stata comunque funesta: nervi tesissimi, occhiate in cagnesco, il presidente della Juve Andrea Agnelli che prima viene quasi alle mani con quello del Genoa Enrico Preziosi e poi si mette a sbraitare contro il laziale Claudio Lotito, entrambi sponsor di Tavecchio insieme a Adriano Galliani. L’ad del Milan ha votato per primo mentre l’anziano boss della Lega Pro Mario Macalli, certo del trionfo, intervallava sorrisi beffardi con battute al veleno sugli avversari. In effetti, non c’è mai stata partita: benché il fronte dei dissidenti sia andato crescendo per settimane, Albertini non è mai parso un’alternativa davvero convincente e il commissariamento era un’ipotesi tremenda praticamente per tutti.

L’elezione di Tavecchio conferma così almeno due teorie sullo stato presente del calcio italiano: che la Figc è l’ultimo bastione di potere reale della mai davvero defunta Democrazia Cristiana e che alle società, in fondo, non gliene importa nulla di far tornare la serie A all’altezza degli antichi splendori. Di riforme serie, se non si fosse capito, non se ne farà neanche una.
Classe 1943, ragioniere, sindaco democristiano di Ponte Lambro, comune del comasco, dal 1976 al 1995, Carlo Tavecchio è un collezionista di poltrone: quando aveva ancora la fascia tricolore addosso entrò nel mondo della dirigenza pallonara, poi, nel 1999, ascese alla presidenza della Lega Nazionale Dilettanti, il vero cuore del calcio italiano, con un giro d’affari da un paio di miliardi di euro e il controllo più o meno diretto di migliaia di tesserati tra serie D, calcio femminile, calcio a cinque e beach soccer. In termini ponderati, per l’elezione del presidente della Figc questi sono i voti che contano di più, e Tavecchio li ha sempre avuti con sé, sin da quando la sua candidatura era solo un’idea.

Quando l’idea si è fatta concreta si è poi mostrato agli occhi di tutti sfoggiando il suo razzismo sguaiato. Dopo aver detto che il fantomatico giocatore africano Optì Pobà prima di arrivare alla Lazio «mangiava banane», mentre «in Inghilterra deve dimostrare il suo curriculum e il suo pedigree», è poi passato a illustrare il suo pensiero sulle donne nel calcio. Un tempo erano ritenute «handicappate rispetto al maschio per resistenza e altri fattori», ha spiegato, ma adesso, per fortuna, non è più così: «Abbiamo riscontrato che in realtà sono molto simili». Luoghi comuni duri a morire, certo, ma anche il simbolo di un’arretratezza culturale alla quale la mitica classe dirigente italiana non ha mai voluto veramente rinunciare.

Le opposizioni sono arrivate al giorno delle elezioni divise e incerte, la serie A è un campionato deprimente, le italiane in Europa fanno piangere, i cosiddetti top player vengono a giocare qui soltanto a carriera quasi finita, l’ultimo mondiale azzurro è stato un fiasco colossale, a settembre (che calcisticamente vuol dire: domani) cominciano le qualificazioni per gli Europei del 2016 e ancora non c’è un commissario tecnico. Per Gramsci la crisi nasce quando il vecchio muore e il nuovo non nasce, lasciando così ampio spazio ai «fenomeni morbosi più svariati». Tavecchio, da navigato lupo della prima Repubblica, sa bene che le situazioni del genere sono le migliori per farsi avanti. In ossequio al vecchio assioma in base al quale il potere non si conquista, ma si raccoglie.