Aveva incontrato qualche giorno fa i maggiorenti della coalizione per impostare, (meglio tardi che mai) la campagna elettorale, già iniziata (per gli altri) da sei mesi. L’intervista a Repubblica di mercoledì scorso pareva la benedizione definitiva nel mondo del centrosinistra. Persino i primi manifesti, con lo slogan «Parliamoci chiaro», erano già sui tavoli. Anche il periodo difficile del suo grande sponsor, Giuseppe Conte, non sembrava averle nuociuto più di tanto. E invece in una calda sera di luglio il suo annuncio è stata l’ennesima doccia gelata per i dem. «Faccio un passo di lato. Mi ritiro dalla corsa alla presidenza della Regione. Devo preservare le mie aziende e i lavoratori».

Maria Antonietta Ventura abbandona dunque prima di cominciare. Sarebbero state le traversie giudiziarie a travolgerla. Ma forse sono il pretesto. D’altronde i nuvoloni grigi che si addensavano sulla «Franco Ventura costruzioni generali Spa» erano noti. E questo giornale, già venti giorni fa, aveva dato conto di quelle interdittive antimafia, pietre dello scandalo, piovute dalla procura leccese. La realtà è che era una candidatura nata male e proseguita peggio. Attaccata da più fronti, Ventura era difesa solo da Enrico Letta e Francesco Boccia. Il segretario nazionale aveva persino annunciato il suo arrivo in Calabria per il 12 e 13 luglio. Troppo tardi. La breve storia della malaventura dem ha avuto il suo esito prevedibile. Storia di potere, di consulenze legali, di hub professionali per studi di fattibilità. E anche una storia di Puglia, lungo le ferrovie, nel Tavoliere. Terra di Ventura ma anche di Conte, di Boccia, di Michele Emiliano che prima che Ventura gettasse la spugna avevano giurato che avrebbero fatto campagna per lei, nella vicina Calabria. Terra anche di inciampi.

Il consorzio con fatture multicolor dentro il quale ci finisce la “Ventura ferrovie” incassa una doppia interdizione e soprattutto sospetti. E la stessa società a metà tra Paola e Bisceglie, stando a quanto riportato dalla Gazzetta del Mezzogiorno di un paio di mesi fa, avrebbe patteggiato una condanna per corruzione e finanziamento non trasparente ai partiti. Come abbia fatto il Pd a scegliere una candidata che per le sue aziende (per non parlare dei conflitti di interessi) sarebbe stata di sicuro oggetto di attacchi non è dato sapere. Ma è di sicuro è un altro dei tanti errori di questa campagna elettorale disastrosa. Ora si potrebbe ritornare alle caselle di partenza. Come un misero Monopoli a perdere. Magari ripresentando i vecchi nomi già cotti e bolliti del giovane consigliere reggino Nicola Irto o del navigato esperto antimafia Enzo Ciconte. Oppure pensare alla soluzione Crotone come qualcuno paventa in queste ore. Ovvero non presentare il simbolo alle elezioni così come sperimentato nella città jonica alle scorse comunali.

E così fonti autorevoli nel Pd parlano di un patto informale con Anna Falcone, candidata nelle liste a supporto di Luigi De Magistris: dare sostegno alla sua lista e successivamente affidarle il partito regionale. A Crotone lo schema era lo stesso, cambiavano solo gli attori. Ma l’esito è stato fallimentare: dopo un anno il Pd non esiste più nella città di Crotone, si è vaporizzato.

Chi dovrebbe trarre giovamento dal democrack è il sindaco di Napoli che infatti attacca: «Faccio un appello alle persone perbene, tante, che militano nel Pd e nei 5S: non rimanete schiavi del sistema e venite a sostenere con noi la rivoluzione per la Calabria. Noi garantiremo con onestà ed autonomia, governabilità, sviluppo, diritti, giustizia sociale, lotta al crimine organizzato. La Calabria merita amore e rispetto, non intrighi di palazzo e compromesso morale. Ora è il tempo di scrivere la storia ed ognuno di noi la può scrivere. Ad ottobre noi libereremo la Calabria».

Il secondo posto De Magistris ormai lo vede già cosa fatta. La destra invece è ancora molto lontana.