Entro agosto il decreto Brescia-Caffaro dovrebbe essere pronto e così, dopo anni ed anni di attesa, il progetto di bonifica del sito industriale finalmente dovrebbe diventare realtà.

L’inizio dei lavori prevede la demolizione degli edifici della fabbrica fatti di amianto e pieni di rifiuti speciali. Il rischio ambientale è alto e se già ambientalisti e ambientaliste bresciani considerano gravemente insufficiente l’idea di bonificare solo il sito industriale, l’iter d’intervento che sommerà agli inquinanti diffusi nei terreni anche ciò che è all’interno degli storici stabili non lascia certo spazio ai sorrisi e ai festeggiamenti.

«IL CASO CAFFARO MERITA di essere conosciuto perché è il simbolo del ritardo delle bonifiche dei siti di interesse nazionale. Qui, come nel sud Italia, con la Terra dei Fuochi, senza la mobilitazione dei cittadini e delle cittadine non si sarebbe fatto nulla», ricorda Rosy Battaglia, giornalista specializzata in inchieste su tematiche ambientali e autrice del documentario Io non faccio finta di niente.

Il caso racconta molto della città, del suo sviluppo e di una delle peggiori contraddizioni del capitalismo, ovvero di quanto la politica è pronta a sacrificare nel nome dello sviluppo economico e del mantenimento dei posti di lavoro.

MARINO RUZZENENTI, STORICO, ambientalista e autore del libro Un secolo di cloro e Pcb. Storia delle industrie Caffaro di Brescia dice che «la Caffaro è fabbrica chimica che ha prodotto tra le sostanze più tossiche del ‘900, Pcb e indirettamente diossina, Ddt e anticrittogamici, e la sua attività si è svolta dentro la città, in mezzo alla case e ad un quartiere. Contaminando una porzione di città, dove vivono, oggi, circa 25 mila abitanti. Ha contaminato anche i terreni, la falda, gli alimenti e la popolazione».

Marcello Zane, storico della Fondazione Micheletti, ricorda che nonostante segnalazioni di problematiche ambientali legate all’azienda fossero note già da inizio ‘900, l’azienda, durante la prima guerra mondiale, diventa stabilimento ausiliario e vende con grandi profitti all’esercito quel cloro – sottoprodotto ingombrante e di risulta dell’elettrolisi – impiegato come gas asfissiante. Grazie al cloro inizieranno produzioni nocive che in seguito inquineranno la falda segnando, probabilmente, l’avvio della dispersione in ambiente di diossine.

«L’INCROCIO CON LA STORIA nazionale e i disastri della guerra sono evidenti. L’intervento pubblico, prima quello municipale poi quello statuale, implementa le produzioni dannose, in nome del lavoro e poi della patria che combatte in guerra. Nella seconda metà degli anni ’30 arriverà la produzione dei Pcb e l’inizio dei problemi che arrivano fino ad oggi».
Si intensifica anche lo sversamento nell’ambiente bresciano di diossina. La politica cittadina, così come i sindacati confederali, tutelando prima di tutto «il lavoro» ha chiuso gli occhi e non ha saputo affrontare il problema ambientale.

LA CONTAMINAZIONE OPERATA dalla Caffaro nei terreni esterni, secondo le rilevazioni dell’Arpa, oltre a tonnellate di Pcb e di mercurio, registra almeno 500 chilogrammi di diossine. Lo studio risale al 2015, con la fabbrica già chiusa da diversi anni, e non comprende le diossine sversate nel sottosuolo dello stabilimento e fuoriuscite nei decenni dallo scarico idrico. È presumibile, quindi, che i numeri del disastro siano stati maggiori.

Quando nel 1976 esplose il reattore della fabbrica Icmesa, a Seveso, secondo alcune stime ci fu la fuoriuscita di non più di 30 chilogrammi di veleno. Per il Time il disastro di Seveso è all’ottavo posto tra i peggiori disastri ambientali della storia, eppure a Brescia la Caffaro ha sversato quantitativi di diossina molto superiori. Per Ruzzenenti «attorno alla Caffaro vi è stato un disastro ambientale di dimensioni uniche, sicuramente a livello nazionale».

NEI DINTORNI DELLA FABBRICA si trovavano campi agricoli e pascoli che negli anni hanno prodotto molto cibo per la città. Nel sangue dei bresciani si trovano residui velenosi altissimi. «Questa vicenda si sarebbe dovuta scoprire dopo quanto accaduto a Seveso, ma le autorità del tempo non lo fecero. Fecero invece di tutto per non vedere, nemmeno davanti alle evidenze. Questo fu il frutto della subalternità delle istituzioni, comprese alcune Università, al potere economico e agli interessi dell’azienda», ricorda Ruzzenenti. E ancora: “La vicenda è uscita con tutta la sua forza e drammaticità nel 2001 quando uno storico ha scritto un libro sulla storia della Caffaro».

NEGLI ARCHIVI DELLA FONDAZIONE Micheletti, a Brescia, si trova un piccolo adesivo, catalogabile nella decade dei ’70, con la scritta «perché Brescia non sia la seconda Seveso – vietiamo alla Caffaro di produrre Pcb! firmato lotta di classe». Una testimonianza di come parti del movimento cittadino criticarono molto duramente l’operato della fabbrica.

«PER MOLTI ANNI – PROSEGUE Marino Ruzzenenti – non si è fatto nulla, se non molte indagini. Penso sia il sito industriale inquinato più studiato d’Italia. Ci sono centinaia, se non migliaia, di indagini fatte sui terreni interni ed esterni alla Caffaro, così come sulle acque e sulle rogge. Si è fatto un grande lavoro di indagine, ben poco per la bonifica. Da quando il piano Caffaro è stato preso in mano dal commissario straordinario, Roberto Moreni (ex funzionario dell’urbanistica del comune di Brescia), ci si è concentrati solo ed esclusivamente sul sito industriale. Il commissario ha deciso che dell’esterno Caffaro non si farà nulla. Non si bonificheranno i giardini, gli orti, i parchi, che i cittadini vivono ogni giorno. Per di più la cosa è grave perché oggi ci sarebbe il margine per avere risorse economiche adeguate, poiché il tribunale civile di Milano ha condannato la Livanova, una delle scissioni dell’ex Caffaro, a finanziare con circa 500 milioni le bonifiche, ma mancando il piano di bonifica si rischia di non poter utilizzare queste risorse».

LA CAFFARO, E I SUOI TERRENI INQUINATI, si trovano all’interno dell’area interessata dal progetto «oltre la strada», progetto di trasformazione urbana ampia e articolata, che rimesterà proprio una parte di quei terreni inquinati.