La Nisshin- maru, una baleniera da 8mila tonnellate di pescaggio, ha di nuovo preso il largo, direzione Antartico. Lo stesso giorno, il 30 novembre scorso, altre quattro imbarcazioni — tre baleniere più piccole dotate di arpioni e una nave da sorveglianza contro gli attacchi degli attivisti di Sea Shepherd — hanno lasciato il paese arcipelago.

«Non può esserci giorno più felice per il sindaco di quella che è la città delle balene», ha dichiarato al quotidiano Mainichi Shimbun il sindaco di Shimonoseki, città da cui sono partite due navi della nuova spedizione che sarà impegnata in Antartico tra febbraio e marzo.

A più di un anno dalla sentenza della Corte di giustizia internazionale che aveva di fatto bloccato ogni nuova iniziativa giapponese sui cetacei, la caccia – o, per usare la terminologia ufficiale del governo giapponese, la ricerca – è riaperta. È infatti la prima volta da quasi due anni che le navi nipponiche partono alla volta dell’Antartico per raccogliere dati sulla popolazione di balene nel Pacifico meridionale, con la possibilità di catturare centinaia di esemplari di balenottera minore.

La ricerca che uccide

Nel testo del programma stilato dall’Agenzia nazionale per la pesca, viene ribadita la necessità dell’uccisione degli esemplari per raccolta di dati biologici e viene aperta la porta a collaborazioni con ricercatori stranieri. L’attività giapponese, come già per i precedenti due programmi di ricerca sui cetacei Jarpa e Jarpa II, anche il New Scientific Whale Research Program (Nwrp) in the Antarctic – questo il nome ufficiale del programma 2015/16, si svolgerà con tutta probabilità nell’area identificata dalla Commissione internazionale come «Southern Ocean Whale Sanctuary» – una riserva naturale di 50 milioni di chilometri quadrati intorno al Polo sud, almeno sulla carta chiusa alla caccia e alla ricerca con metodi letali.

«Vogliamo portare a casa risultati che riescano a mettere tutti d’accordo e portare avanti il sapere e le tecniche della caccia alla balena», ha detto sempre al Mainichi Nobuo Abe, il capitano della Yushin-maru 2, una delle navi di appoggio alla nave fabbrica Nisshin-maru.

L’obiettivo dichiarato del nuovo programma è arrivare alla fine della moratoria della caccia commerciale istituita nel 1986 dalla Commissione internazionale per la caccia alle balene per preservare i grandi mammiferi marini. Usando le parole del presidente della Japan Whaling Association Keiichi Nakajima, intervistato da Al Jazeera nel 2010, con la sua opera di ricerca scientifica, il Giappone vuole dimostrare che «la caccia commerciale può essere sostenibile e non dannosa per le risorse naturali».

A fine marzo 2014 il tribunale internazionale, accogliendo un’istanza presentata da Australia e altri paesi contrari alla caccia alle balene, aveva infatti emesso una sentenza che invitava il governo giapponese a fermare il secondo programma di ricerca sui cetacei (Japanese Special Research Program under Special Permit in the Antarctic o Jarpa II), in corso dal 2005, e a non concedere ulteriori permessi e autorizzazioni ad attività «non a fine scientifico«. La sentenza tuttavia riconosceva che il Jarpa II poteva «in generale essere definito un programma scientifico» ma che la sua portata e, in particolare, il suo estensivo uso di metodi letali per la raccolta dei campioni, non erano rapportabili agli obiettivi scientifici, in verità poco chiari e molto simili a quelli del primo programma di ricerca sui cetacei dell’Antartico risalente al 1987.

Operazione contro l’«imperialismo»

Per gli addetti ai lavori, la spedizione partita lunedì scorso ha una portata simbolica di opposizione all’«imperialismo» culturale dell’Occidente che vorrebbe la fine della caccia ai grandi cetacei, a difesa della tradizione giapponese del consumo della balena.

In effetti basta una ricerca su tabelog – l’equivalente giapponese di TripAdvisor per i ristoranti – per capire che la carne di balena continua a essere servita nei ristoranti del paese-arcipelago. Sono almeno 150 i ristoranti in tutto il paese recensiti sul portale online.

Ma quanta balena mangiano i giapponesi? La risposta è una sola: pochissima. Nel 2014, secondo la ricercatrice Junko Sakuma, appena 30 grammi. Anche perché, nonostante i prezzi in discesa, la carne di cetaceo rimane un alimento costoso. Certo, in alcune regioni costiere del Giappone, fin dall’antichità, si è praticata la caccia alla balena; ma fino al secondo dopoguerra non è mai esistita una tradizione del consumo della carne dell’animale.

Nel dopoguerra fu identificata come una delle principali fonti di grassi e proteine per un paese ridotto alla fame dalla guerra. Negli anni ’70, finita l’emergenza, ci fu poi un vero e proprio boom spinto dal governo attraverso i principali quotidiani dell’epoca per ottenere il consenso dell’opinione pubblica verso la caccia alle balene lontano dalle coste dell’arcipelago giapponese.

Oggi parte della popolazione giapponese si chiede se sia necessario continuare con la caccia alle balene a fronte delle critiche della comunità internazionale e di un settore sempre meno redditizio, che secondo una ricerca del 2012, nel 2011 è costato oltre 45 miliardi di dollari per costi operativi e di manutenzione della flotta baleniera giapponese.

Sul settore domina però un monopolio – l’Istituto di ricerca sui cetacei e il suo braccio operativo, la Kyodo Sempaku, l’armatore delle baleniere – che riceve ingenti sussidi dal governo di Tokyo. E che, come dimostrato da un’inchiesta di Greenpeace che nel 2010 ha rivelato un giro di corruzione a base proprio di carne di balena, riesce ad avere presa sui funzionari statali per ottenere permessi di ricerca e caccia.