Lucy e Sam, rispettivamente dodici e undici anni, devono affrontare da sole un mondo ostile, pericoloso, sconosciuto. Dopo aver perso la madre vagano per settimane alla ricerca di un luogo dove seppellire anche il corpo del padre esposte alle intemperie, la siccità come le tempeste, la furia e il razzismo degli uomini. Sono due sorelle cinesi – anche se Sam si percepisce come un vero cowboy, anzi un «fuorilegge», un «uomo duro» ma alto ancora poco più di un metro -, nate nell’Ovest degli Stati Uniti negli anni della «corsa all’oro» dove Ma e Ba, prima di abbandonarle, le hanno trascinate inseguendo un sogno di benessere e libertà.

Con uno stile che rielabora con grande ironia i canoni del Western, C Pam Zhang, autrice nata a Pechino nel 1990 e cresciuta negli Usa, attualmente abita a San Francisco, tesse in Quanto oro c’è in queste colline (66thand2nd, pp. 346, euro 18, nella ricca traduzione di Martina Testa) la trama di un racconto che ha il respiro del mito e dove si intrecciano senza fine una serie di quesiti sull’identità, il genere, l’emigrazione e la classe. Un esordio indimenticabile che la scrittrice presenterà alla Fiera della piccola e media editoria «Più libri più liberi» che si apre domani alla Nuvola di Roma (Mercoledì 8 dicembre, ore 12.30 – Sala Polaris con C Pam Zhang e Gianni Riotta).

C Pam Zhang

Da dove nasce l’idea di raccontare l’epopea violenta del West attraverso lo sguardo di due bambine cinesi?
In sogno mi è apparsa un’immagine che parlava di colline dorate, caldo secco e di due sorelle in fuga. Spesso ciò che scrivo si ispira alle immagini che popolano i miei sogni: magari solo qualche traccia di qualcosa di cui cerco di indovinare il significato e i passaggi emotivi che potrebbero seguire. Tutto parte da lì, quasi sempre.

Lucy e Sam, le due protagoniste, non sono solo sorelle, ma sembrano per molti versi incarnare due aspetti della medesima personalità o, ancora, due diversi approcci emotivi e psicologi alla vita: cosa rappresentano per lei?
Lucy desidera soprattutto l’assimilazione. È un esempio del mito della «minoranza modello» di cui cadono preda tanti immigrati asiatici negli Stati Uniti. Ha fatto propria intimamente l’illusione secondo la quale se è abbastanza «buona», abbastanza mite, abbastanza obbediente, le sarà permesso di «essere bianca». Ma ovviamente questo è impossibile, e per parafrasare quanto ha scritto Cathy Park Hong (poeta e scrittrice coreano-americana) «essere bianchi» per persone come lei significa scomparire. Questo comportamento di Lucy finirà infatti per distruggerla psicologicamente e per condurla a odiare se stessa. Anche se la rende in apparenza più sicura nel muoversi all’interno di una società dominata dai bianchi. Dall’altra parte c’è invece Sam, che non saprebbe essere nessun altro tranne Sam. Il suo è un atteggiamento che ammiro e che potrebbe anche essere chiamato coraggioso se, allo stesso tempo, non esponesse Sam al rischio di essere oggetto della violenza degli altri, nel contesto in cui si muove. Più di ogni altra cosa volevo mostrare come entrambi questi approcci siano però inefficaci, non perché le bambine abbiano scelto male, ma a causa del fallimento dell’intera società nella quale crescono e che non consente loro di percorrere un’altra strada.

Perché una scrittrice trentenne come lei sceglie di utilizzare come spunto per il suo primo romanzo proprio lo stile del Western?
Non avevo mai scritto un western, né un romanzo storico prima di Quanto oro c’è in queste colline. Il mio lavoro precedente è consistito sempre in racconti ambientati in contesti contemporanei. Ho resistito a lungo a scrivere questo romanzo, non sapendo bene da dove venisse l’ispirazione: alla fine però mi sono resa conto che, nonostante l’ambientazione, stavo ancora affrontando alcuni degli stessi temi senza tempo dei miei racconti brevi, solo che in questo caso mi stavo muovendo su una scala mitologica più ampia. Al centro della storia ci sono sempre la disuguaglianza di genere, le false promesse del sogno americano e ciò che accade nelle famiglie immigrate che si misurano con questa realtà.

L’immagine degli operai cinesi che stendono i binari della ferrovia, spesso al prezzo della loro stessa vita, ritorna nei racconti western, anche se raramente sono protagonisti di quelle storie. Esiste una memoria specifica di questa presenza asiatica nell’ambito della storia dell’espansione verso ovest del Paese?
C’è un evento storico specifico che interroga in modo ossessivo questo libro proprio perché è stato estromesso esplicitamente dalla memoria culturale statunitense. Nel 1869 fu scattata una fotografia per commemorare il completamento della linea ferroviaria transcontinentale americana.
Quella foto non contiene un solo volto cinese nonostante il fatto che oltre quindicimila lavoratori immigrati dalla Cina avessero reso possibile quei festeggiamenti e ciò che ne stava alla base. La vera e propria impresa che avevano compiuto, così come i morti che avevano pianto per realizzarla e tutte le difficoltà vissute sono state di fatto cancellate dalla fotografia ufficiale.

Nel romanzo, il linguaggio del mito si misura con la difficile vita quotidiana dei protagonisti, quasi a giocare con i codici narrativi dell’epopea del West ma in modo inedito, spesso volutamente irriverente nei confronti della tradizione. Perché questo approccio?
Ho sempre amato le rivisitazioni delle fiabe, e considero questo mio romanzo come parte di quel genere. Da bambina, ho prima letto le fiabe e i libri di mitologia di tutte le culture che riuscivo a trovare, e poi, con la stessa determinazione, mi sono rivolta verso i testi che rivisitavano tali tradizioni, penso a Deerskin di Robin McKinley e a La camera di sangue di Angela Carter. Quest’ultimo in particolare è davvero un libro fondamentale per me: strappa le redini della narrazione ai finali ordinati e convenzionali, permettendo alle donne intrappolate nei racconti di diventare selvagge e astute e di assumere tutto il loro vero spessore. A pensarci meglio, di recente ho letto che Carter in realtà non amava essere considerata come un’autrice che «riprendeva o reinterpretava» qualcosa e penso sia giusto. In realtà si tratta di usare racconti e miti nazionali come punto di partenza per un’esplorazione, piuttosto che sentirsi limitati dalle convenzioni che portano con sé.

Il mondo descritto nel romanzo è quello del West americano di due secoli or sono, ma si ha l’impressione che racconti una realtà più che attuale: razzismo, violenza contro le donne, sfruttamento senza remore delle risorse naturali…
La storia si ripete. Non abbiamo certo inventato noi ciò che consideriamo come problemi contemporanei: la violenza di genere, le narrazioni queer e il danno ambientale esistono dall’alba dei tempi. È solo perché queste vicende sono state escluse dai documenti storici ufficiali che le consideriamo nuove. E anche per questo è importante lottare contro tale cancellazione.

È arrivata dalla Cina negli Stati Uniti quando aveva solo quattro anni: la storia di Lucy e Sam la riguarda personalmente?
Come Lucy e Sam, ho sempre messo in dubbio il significato del termine «casa». È un enorme privilegio sentirsi a casa nel mondo, non guardarsi alle spalle; è un dono psicologico di grande importanza. Molti immigrati non si sentono mai così. Sono nata come cittadino cinese e sono diventata cittadino americano solo da adolescente. Sentivo di non essere veramente americana perché mettevo in dubbio il mio senso di appartenenza e l’idea stessa di Stato come nazione. Ma mi sono resa conto che è proprio l’atto di mettere in discussione una nazione che ti fa appartenere ad essa: la quantità di attenzione e critica che metti in tutto ciò sono un privilegio e, credo, una dimostrazione di amore implacabile per un luogo in cui vedi possano esistere maggiori possibilità.