Nella strage più «periferica» che ha insanguinato questo venerdì di Ramadan hanno perso la vita almeno 50 militari burundesi inquadrati nella forza interafricana Amisom, che ha il complicato se non velleitario obiettivo di pacificare la Somalia. Il che significa essenzialmente fare i conti con l’organizzazione jihadista Al Shebaab, sempre più svincolata da al Qaeda e sempre più vicina all’Isis, proprio come accade con l’estremismo salafita in Tunisia.

L’attacco di venerdì scorso ha sorpreso i soldati dell’Amisom all’interno di una base a Leego, 100 km da Mogadiscio, sull’arteria che collega la capitale a Baidoa, dove si trova il quartier generale delle truppe burundesi. Che solo tardivamente sono riuscite a rispondere al fuoco, uccidendo una dozzina di miliziani. Non è chiaro se al Shebaab controlli ora la base, ma testimoni locali riferiscono di mezzi dati alle fiamme e di armi portate via insieme ai corpi dei jihadisti uccisi nell’attacco. Con oltre 5mila effettivi il Burundi vanta il secondo contingente più numeroso di Amisom, attivo sul terreno dal 2007.

La morte di questi 50 giovani ha scosso il paese, ma non al punto di distoglierlo dalla crisi in cui è precipitato dalla fine di aprile, quando il presidente Nkurunziza ha manifestato la volontà, in barba alla costituzione, di correre per un terzo mandato. Dopo la dura repressione delle proteste di piazza seguite all’annuncio e un fallito colpo di stato Nkurunziza ha ripreso il controllo della situazione e malgrado gli appelli anche internazionali a fare un passo indietro è lui il candidato da battere alle elezioni che si terranno il prossimo 15 luglio. Ma la tensione è già alle stelle in vista del voto per le legislative e le amministrative che si terrà domani. Nei giorni scorsi il vicepresidente Gervais Rufyikiri, accusato di complicità con la fazione ribelle dell’esercito, ha lasciato il paese in tutta fretta e si trova ora a Bruxelles. Fuga rocambolesca anche per Bernard Busokoza, l’altro vicepresidente destituito da Nkurunziza nei mesi scorsi, sfuggito all’arresto mentre oltrepassava il confine con il Ruanda.

Ma a pagare il prezzo più alto per le tensioni in corso sono i profughi, cresciuti a dismisura con l’avvicinarsi del voto di lunedì. Sarebbero circa 130 mila le persone fuggite nei paesi vicini dall’inizio della crisi. L’emergenza umanitaria si fa sentire soprattutto nel campo di Nyarugusu, in Tanzania, dove ai 60 mila profughi della Repubblica democratica del Congo già presenti se ne sono aggiunti altrettanti in fuga dal Burundi. Nella capitale Bujumbura inoltre centinaia di studenti sono riusciti a oltrepassare il cancello dell’ambasciata statunitense e ora sono accampati nel parcheggio.
Opposizioni e società civile boicottano energicamente il voto di domani, definito un «simulacro di elezione», oltre a denunciare intimidazioni e la chiusura dei media indipendenti.