Jean Malaquais (1908-’98), pseudonimo di Wladimir Malacki, era un emigrato polacco di origine ebraica che perse i familiari nei campi di sterminio nazisti e si trasferì in Francia dove intraprese i mestieri più umili (minatore in Provenza e scaricatore nei mercati parigini delle Halles), prima di dedicarsi, con scarso successo, alla letteratura e, successivamente, all’esegesi di Kierkegaard che gli fece imparare il danese e licenziare una serie di interessanti contributi critici.
Le dure esperienze lavorative si riversarono nella stesura del romanzo Les javanais, pubblicato da Denoël nel 1939 e vincitore del Prix Renaudot davanti al Muro di Sartre (I giavanesi, versione italiana apparsa nel 2009 da DeriveApprodi), caratterizzato da una verve linguistica che a tratti ricorda le straordinarie affabulazioni picaresche di Céline, al quale venne paragonato dal suo mentore Gide. Molto presente è il ricorso all’argot parlato nell’Isola di Giava, metaforica località della Provenza in cui si sparpagliava la fauna poco raccomandabile di migranti di mezzo mondo, costituita da fuggiaschi, dissidenti, apolidi e banditi, che sgobbava in miniera al fine di ubriacarsi la domenica presso la Double Pesée di Madame Michel.
L’altro monumentale romanzo di Malaquais, Planète sans visa, ambientato nella Francia occupata, fu edito nel 1947 e venne riportato in italiano da Lupetti nel 2010 con il titolo Pianeta senza visto. Tra i due estremi, quasi a formare una trilogie du désespoir, si colloca Le gaffeur, romanzo a chiave del 1953, che conobbe una prima versione italiana nel 1958 presso l’editore Martello, privo di alcune parti e intitolato in maniera arbitraria Il venditore di fumo. Viene ora riproposto integralmente da Cliquot con il titolo, altrettanto inadeguato ma suggestivo, di La città senza cielo (pp. 288, € 20,00) nella nuova, valida traduzione di Elisabetta Garieri. Vi figura una prefazione di Norman Mailer, autore di cui Malaquais tradusse in francese Il nudo e il morto, non disdegnando di apportare svariate critiche all’impianto stilistico del romanzo. Mailer rileva come il libro di Malaquais sia «uscito con vent’anni di anticipo, e descrive un mondo che ci sta apparendo all’orizzonte soltanto adesso: un orrendo mondo di palazzoni altissimi, sessi indistinti, computer e incorporea appariscenza, dove ciascuno è la superstar di sé stesso, dove le molecole di aria graveolente di plastica sono costrette a girare perennemente in circolo nelle bocche dei condizionatori, e dappertutto è mestizia irrancidita di materiali torturati, deodoranti e luci fluorescenti».
I temi del romanzo si concentrano intorno a quello distopico di una burocrazia onnipresente, onnipotente, onnisciente, le cui fila sono ordite da entità sfuggenti e misteriose (incarnate da vari funzionari, tra cui l’inquietante dottor Babitch), sulla falsariga di alcuni personaggi descritti da Kafka e Orwell. Ma, a differenza dell’impianto narrativo variegato e mosso che contraddistingue il romanzo d’esordio, improntato su dialoghi basati su un plurilinguismo di taglio gergale (figura in calce al libro un dizionario di «giavanese»), La città senza cielo risulta stilisticamente più misurato, con il felice tentativo di scomporre certi dettagli in forma quasi cubista. Si pensi in tal senso ai palazzoni raffigurati come enormi «parallelepipedi» o alla tendenza a isolare una serie di particolari nei ritratti schematizzati dei volti, creando effetti di stampo iperrealista: «La vista di quella bocca incastonata in una faccia geometrica, a cui si abbinava un naso verticale sormontato da sopracciglia orizzontali che inquadravano lenti rettangolari, non finiva di preoccuparmi».
La paradossale vicenda di Pierre Javelin, piazzista di cosmetici e lozioni di bellezza che perde progressivamente tutto quello che possiede, compresa la moglie, prende l’abbrivio da una semplice firma sbagliata in un modulo amministrativo. Il tema della ribellione (non si può a tratti non pensare all’Homme révolté di Camus, uscito nel 1951, anche se l’impegno politico di Malaquais rimarrà sostanzialmente fedele a un retaggio marxista di tipo libertario, avverso allo stalinismo) si configura perciò come il movente che anima le azioni del protagonista che, non a caso, compone versi che nessuno è in grado di apprezzare, quasi che la poesia fosse considerata la cartina di tornasole di una condizione umana aberrante, deficitaria.
Il registro del meteco Malaquais sembra virare rispetto «ai tempi in cui dichiaravo guerra alla luna», come si legge in Les javanais, in direzione di una narrazione spesa (e sospesa) in chiave avveniristica, dai toni fortemente emblematici, enigmatici, in cui i nomi stessi degli enti predisposti all’apparato burocratico (Istituto nazionale per la bellezza e l’estetica, Istituto nazionale di idiosincrasia applicata, Istituto nazionale dei sigilli e delle stimmate) campeggiano nella loro esibita inverosimiglianza come entità anodine e soverchianti: tirannide non monolitica, che ab absurdo ostenta «i suoi rituali di accoppiamento» (Mailer).
Questa megalopoli, questa Città tentacolare, priva della carità di un solo albero, viene descritta con una perfezione geometrica che richiama certi scorci urbani allucinati e sovrapposti di Feininger e si attaglia all’inerzia stessa dei suoi abitanti: «In lei e su di lei niente doveva stonare con la visione che si era fatta del mondo e, poiché quel mondo era quadrato e appuntito, lei si organizzava per somigliargli: quadrata e appuntita».