Il fiume di retorica versato in questi giorni per l’addio di Buffon è sintomo della rovina in cui si crogiola il pallone. Non bastava celebrare uno dei portieri più forti di sempre, avesse sollevato anche solo una Champions avrebbe sicuramente vinto il Pallone d’Oro. No, bisognava per forza esaltarne una presunta grandezza etica e morale, farne un esempio di vita per i più giovani. Intendiamoci, nulla di nuovo, già Meazza eccedeva il suo ruolo di calciatore e incarnava una funzione economica e sociale simbolica per il fascismo. E così è stato sempre. Da Riva a Baggio, da Fabbri a Sacchi, in Italia il calcio è un susseguirsi di uomini della provvidenza. Nel bene e nel male. Se la Nazionale non si qualifica per i Mondiali di Russia 2018 è colpa di Ventura (o di Insigne, o dello stesso Buffon), non di un sistema costruito sulla sabbia dei monopoli televisivi e di proprietari avvoltoi che privatizzano i profitti e socializzano le perdite, ma chissà perché sono chiamati mecenati.

Un paese non certo innocente, ma attraversato da profonde contraddizioni come la Francia, grazie a politiche sportive di investimento su centri federali, squadre giovanili e vivai, e grazie soprattutto a politiche sociali di integrazione come lo ius soli, può permettersi di andare in Russia da favorita lasciando a casa giocatori (Martial, Rabiot, Lacazette, Coman, Benzema e altri) che sarebbero titolari fissi nella nuova Nazionale di Mancini. Qui invece, scelto il singolo come capro espiatorio che ci permetta di assolvere il sistema, siamo ancora ai ricorsi incrociati nei tribunali tra Sky e Mediapro, per quei diritti tv che andranno a gonfiare le tasche dei nostri presidenti, non certo a risollevare le sorti né magnifiche né progressive del pallone. Com’era prevedibile Malagò, a sei mesi dal blitz che lo ha portato a commissariare l’intero calcio italiano, non ha prodotto lo straccio di un’idea. Solo nuovi uomini (e aziende) della provvidenza: Costacurta, Mancini, la stessa Mediapro. E così hanno avuto buon gioco le componenti sconfitte (Serie B, C, Dilettanti e l’ondivago sindacato calciatori di Tommasi) a riunirsi sotto il nome di Abete, il vecchio che avanza.

L’unica idea brillante partorita da maggioranza e opposizione, ognuno a rivendicarsela, non fosse che se parla da anni, è quella delle seconde squadre. Vedrà la luce solo se potrà essere ulteriore strumento di guadagno, altrimenti sarà accantonata. E così oggi la Juventus in casa con il Verona festeggia giustamente il settimo scudetto consecutivo, una dittatura spaventosa come può nascere solo in un sistema allo sbando, privo di anticorpi. E come nel caso di Buffon, dove chi non lo esalta si affretta a ricordarne l’elogio dei biscotti di fine stagione o le simpatie di estrema destra, anche per i bianconeri non ha senso alcuno farne un simbolo, positivo o negativo, sottolineandone lo strapotere economico e politico, il controllo dei giocatori prestati alle altre squadre, le plusvalenze. Così fan tutti, la Juve lo fa solo meglio. Così si fa da sempre, basta ricordare le figure di Allodi, di Galliani e di Moggi, che oltre alla Juve hanno fatto vincere anche Inter, Milan, Napoli e in qualche modo anche Torino, Lazio e Roma.

Il calcio è un dispositivo di potere diffuso, o si sovverte o non ha senso nascondersi dietro le malefatte del vincitore di turno per assolvere gli altri. Se domani l’Inter non batte la Lazio all’Olimpico, sarebbe la quinta stagione consecutiva senza milanesi in Champions League, nerazzurri fuori addirittura da sette. Eppure, le due squadre non possono rivendicare alcuna innocenza. Al di là di proprietà che si perdono in scatole cinesi e paradisi fiscali, nerazzurri e rossoneri continuano a vendere, comprare, prestare e scambiare – secondo Transfermarket, l’Inter nella stagione 2017/18 ha mosso oltre cento giocatori e circa duecento milioni, il Milan qualche giocatore in meno e qualche milione in più. Evidentemente interessa più questo tipo di affari che non giocare la Champions. Le squadre che lottano per non retrocedere – domani decisive Napoli-Crotone, Spal-Sampdoria e Cagliari-Atalanta – si comportano allo stesso modo, hanno anzi l’aggravante di accodarsi al potente che offre loro più briciole, invece di provare a cambiare qualcosa. E allora lasciamo in pace Buffon, nel bene e nel male.