Ci sono persone che preferiscono non lasciare traccia. E ci sono persone che invece ci tengono a farlo. Nulla di nuovo, ma ha un modo tutto speciale di toccarti, quando vieni a sapere che un autore, un artista, un uomo di profondo spirito «ci riesce».

Al grande pubblico il nome di Gianpietro Sono Fazion non dice nulla. Nasce nel 1936 a Cerea, nel veronese, ma cresce in Alto Adige, consegue la laurea in filosofia, inizia a comporre mandala rupestri sulle montagne e a scattare fotografie alle manifestazioni spontanee della natura e così, alla vigilia delle contestazioni studentesche, mentre in molti vogliono cambiare il mondo, Fazion si mette in ascolto del cosmo e della forza tellurica degli elementi naturali e geologici. In un atto di ribellione al sistema dell’arte e alla mercificazione della cultura, seppellisce fra i ghiacciai e nella terra alcuni suoi scritti e opere per lui fondamentali, quali il Walden di Thoreau o il Tao Te Ching. La documentazione del suo percorso è conservata al Museion – Museo d’arte Moderna di Bolzano.

INIZIA le prime letture buddiste e decide di dedicarsi alla cura del proprio silenzio. Viene ordinato bodhisattva da uno dei nostri primi maestri zen italiani, Fausto Taiten Guareschi, collabora con Fondazione Maitreya e l’Istituto di Cultura Buddhista di Roma. Si stabilisce fra i monti di Colfiorito, a Sostino, frazione montana di Foligno, in Umbria. Scrive diverse opere, fra le quali Viaggio nel buddismo zen (Cittadella, 1990), 100 haiku (Alieno, 1999); per Appunti di viaggio: Lo zen e la luna (1994) e Una stella a oriente (2004), infine una emozionante biografia: Lo zen di Kodo Sawaki, riformatore radicale dello zen di scuola Soto (Ubaldini, 2003), maestro giapponese tra le principali figure del buddismo contemporaneo.

Fazion era appassionato di arte e francescanesimo, a suo modo un protagonista di quel tentativo di dialogo mai scontato fra le diverse fedi religiose. Alto, lunga e folta barba e occhialoni da sinologo vecchio stampo, chi lo ha incontrato racconta delle sue bizzarrie, da buon praticante zen: ad esempio una certa tendenza a festeggiare la comunione con le persone irrorandola di vino, oppure Cristina, la sua celebre «tartaruga monaca», una tartaruga di terra – circola online una fotografia in cui la tiene in braccio, come un cucciolo – per la quale cucinava piatti di spaghetti al pomodoro.

NEGLI ULTIMI ANNI Fazion è stato ospite di una casa di riposo a Città di Castello, ove silenziosamente si è spento lo scorso anno, ricongiungendosi con quel vasto inconcepibile vuoto del quale aveva ricercato la fonte, per parte della propria esistenza. La sua era una penna felice. Sapeva mescolare le tipiche storie zen con un piacere al ragionamento lento e pulito, senza eccessiva enfasi, come spesso invece accade quando si legge di queste «materie». E aveva il tocco del poeta, ne conosceva il passo, come testimoniano i suoi haiku: «La grande carpa / nuota nel lago – / nell’acqua, nulla che si muova», o «Più vicino al cielo / voli di aironi»; «Mattino – / nell’erba / sutra senza parole» (tratti da Lo zen e la luna). Oppure questo, composto il 21 marzo 1996, al risveglio della sua amata Cristina: «O tartaruga, / così lieta / porti la tua casa?».

Nel salutarlo qui, in ritardo, ci piace recuperare un passo del suo maestro spirituale, Sawaki, di cui lo stesso Fazion riporta, nella sua biografia, una frase che ne potrebbe incarnare lo spirito e lo sgomento: «Guarda la montagna. La natura è grande, mentre gli uomini si occupano di piccole cose; in tutta la mia vita non ho mai avuto modo di ammirarla completamente».