C’era persino una delegazione tedesca che sfoggiava magliette nere con su scritto Spencer Hill Festival alla presentazione della mostra dedicata a Bud Spencer, inaugurata il 13 settembre nella sede della Sala Dorica di Palazzo Reale a Napoli (fino all’8 dicembre). Si, perché a Berlino a fine agosto si tiene un Festival intitolato alla coppia, termometro della straordinaria popolarità in Germania soprattutto di Spencer che ha addirittura il più grande fan club del mondo e recentemente Mattarella gli ha concesso il privilegio di una medaglia del presidente della Repubblica. Del resto l’attore di origine napoletana al secolo Carlo Pedersoli morto tre anni fa a 87 anni, è uno degli otto attori italiani più amati e celebrati di sempre a livello planetario ed è diventato nel tempo un’icona popolare. Molti non sanno che lo pseudonimo d’arte Bud Spencer è scaturito dalla sua passione per Spencer Tracy e perché beveva la birra Budweiser. Qualcuno più sofisticato avrà anche attribuito l’origine del nome al filosofo inglese Spencer, padre dell’evoluzionismo e darwinismo sociale, e volendo forzare l’accostamento in fondo lo sportivo, il nuotatore Pedersoli poi è evoluto nell’omaccione spaccatutto Spencer. Quello che con Terence Hill ha costituito uno dei binomi comici di maggiore successo commerciale del cinema italiano col ciclo Trinità e non solo e con personaggi come Piedone.

Con oltre 50 film interpretati e grazie a una vincente miscela di simpatia, ironia e prestanza fisica sottolineata dai suoi mitici cazzotti e schiaffi amplificati dai rumoristi ma anche alla voce perfetta del doppiatore abituale Glauco Onorato, Spencer è entrato prepotentemente nell’immaginario di generazioni al punto che alcuni fan di Bologna hanno ideato un videogioco, che s’intitola Slaps and beans (Schiaffi e fagioli), in commercio da qualche mese riferendosi soprattutto ai film girati assieme a Terence Hill. L’amico e partner di una vita non è potuto intervenire all’inaugurazione perché è impegnato sul set ed ha inviato un video-messaggio, ma gli organizzatori, il curatore e il figlio contano di portarlo a Napoli. Il suo atipico e eclettico percorso ora è ricostruito con questa bella e corposa mostra che parte da Napoli la città dove è nato e per l’esattezza a Santa Lucia nello stesso palazzo di Luciano De Crescenzo. Anche se di fatto ha lasciato Napoli con la famiglia quando era un ragazzo ed è cresciuto tra Roma e il Sud America. E questo in qualche modo mette al riparo dalla facile retorica e dall’enfasi patriottica con le quali spesso Napoli accompagna certe operazioni culturali coccolando i propri figli, salvo poi in altri casi dimenticarli o abbandonarli quando non servono alla causa. Si tratta di una mostra multimediale, coprodotta da Equa e Istituto Luce-Cinecittà con il sostegno della Siae, ospitata dal Polo museale campano e la collaborazione della Film Commission Regione Campania e della famiglia, la moglie Maria Amato e i figli Giuseppe, Cristiana e Diamante (il progetto allestimento e le video installazioni sono a cura di Art Media Studio di Firenze) e curata Umberto Croppi, curatore anche di una preziosa monografia con interventi critici, testimonianze e filmografia completa. Il percorso espositivo propone impianti multimediali, video-mapping, proiezioni su pannelli, oggetti di scena, premi italiani e internazionali ricevuti sia come artista che come sportivo, articoli di giornali di tutto il mondo, poster, manifesti di film, bozzetti originali, foto pubbliche e private, gadget, filmati, oggetti personali e di scena, costumi di scena, scenografie dei suoi film, le lettere più emozionanti scritte dai fan, frasi e aforismi, sceneggiature e libri in svariate lingue, immagini del suo partner Terence Hill e dei numerosi registi con i quali ha lavorato da E.B.Clucher nome d’arte di Enzo Barboni, figura-chiave del successo di Spencer in quanto artefice del ciclo dei “fagioli western” Trinità, a Steno, Olmi, Festa Campanile, Montaldo, Colizzi, Argento, Castellari e altri. In una bacheca sono esposti alcuni diorami della Lego che ricostruiscono scene di Lo chiamavano Trinità, Banana Joe e altri film, su una parete c’è la foto della statua che lo raffigura a Budapest, svariate band, in mezzo mondo, gli hanno dedicato canzoni. Insomma la mostra ci fa toccare con mano il fatto che Bud Spencer è una leggenda e l’esposizione ricompone un personaggio diventato maschera.

In realtà a differenza di tante esposizioni che mirano in genere ad esaltare le qualità e il talento riconosciuti di grandi attori o a risarcire altri interpreti sottovalutati, questa non ha l’effetto di celebrare uno che non si può considerare un grande attore – del resto, si sa, lui stesso amava ripetere «Non sono un attore, ho fatto l’attore» – ma di comunicare l’eclettismo della sua personalità, di rimettere insieme i tasselli di una bella storia, di raccontare una vicenda al tempo stesso sportiva, artistica e umana unica e irripetibile. Quella del ragazzone nato a Napoli il 31 ottobre 1929 che si afferma rapidamente nel mondo del nuoto dove vince e addirittura si porta a casa il record di primo italiano a scendere sotto il minuto nei 100 metri stile libero. Quella dell’attore, campione di nuoto e pallanuoto, pugile, rugbista, pilota d’aereo e d’elicottero, pilota di rally, lottatore, pubblicitario, imprenditore, scrittore, paroliere, cantante, fondatore di una società di assicurazioni e di due aziende di abiti per ragazzi, inventore (12 brevetti) e anche filosofo, perché il suo libro Mangio, ergo sum riflette sulla vita e il modo di interpretarla. A 17 anni era già iscritto all’Università, Bud, parlava sei lingue, oltre al napoletano, e conosceva a memoria, in greco antico, interi passi dell’Anabasi di Senofonte.

Ed era anche inventore. Negli anni 60, con due amici, sul telaio di una 600 multipla, realizzò il prototipo di una rudimentale auto elettrica. Il progetto fallì, perché sulla prima salita romana la macchina si rifiutò di andare avanti. Ma lui si sentiva fiero di aver precorso i tempi. Inventò anche uno spazzolino con dentifricio incorporato, e un sedile pieghevole e portatile che diventava quasi un bastone. E l’abile accostamento delle foto giovanili dello sportivo sconosciuto ai più e di quelle dell’interprete cinematografico famoso e l’espediente di guidare il visitatore con la sua viva voce impregnano il percorso di un insolito spessore letterario. «Questa mostra – dice il figlio Giuseppe – si deve indirettamente ai fan, che ancora a migliaia, soprattutto sui social, esprimono il loro affetto e chiedono di conoscere sempre nuove curiosità su mio padre. Sono loro che ci hanno spinto a questo evento. Ogni giorno ricevo lettere, ogni settimana vado al cimitero per raccogliere quel che i fan lasciano sulla sua tomba. Molti mi scrivono lettere tipo “Bud è nel nostro cuore perché oggi vedo i suoi film con i miei figli, così come prima li vedevo con mio padre”. Quando raccontava la propria vita a Lorenzo De Luca, con cui scrisse l’autobiografia, io con una piccola telecamera registrai tutto, senza immaginare che il materiale raccolto mi sarebbe servito per questa occasione».

«Aveva fantasia e creatività – aggiunge Giuseppe con comprensibile orgoglio – per me crescendo è diventata una figura sempre più importante soprattutto per la filosofia di vita che incarnava: una visione basata sulla capacità di affrontare i problemi con attitudine positiva. Diceva di non poter insegnare nulla a nessuno, ma una lezione di vita l’ha data: è stato un uomo che ha avuto la fortuna dalla propria parte, ma anche la capacità del campione, che non scende a compromessi per i successi ottenuti e guarda al futuro con l’ottimismo della volontà». C’è una vita intera insomma nella mostra, una vita vissuta in maniera piena e intensa e la migliore icastica epigrafe è quello che amava dire Bud stesso: «Ho fatto di tutto nella vita, tranne il ballerino classico e il fantino».