Nell’installazione video Mapping the Studio, Bruce Nauman lasciava durante la notte una telecamera accesa nel suo atelier, registrando con i raggi infrarossi le apparizioni furtive che attraversavano il buio. Il ronzio di una mosca, il volo della falena o la traiettoria della corsa di un topo trasformavano quello spazio vuoto in un luogo vivente. D’altronde, per questo artista-demiurgo lo studio è un territorio fertile abitato da una moltitudine di soggetti, che vanno dalle presenze fisiche a quelle astratte delle idee, vissute in senso platonico. È qui che l’arte si attiva, d’improvviso, «come prendere un colpo in faccia con la mazza da baseball. O meglio, come essere colpito sulla nuca. Non si vede mai arrivare il colpo», dice Nauman.
L’esplosione nasce da un lungo processo di indagini, dalla consuetudine a «tenersi occupato tutti i giorni», accendendo un circuito di ripetizioni quasi ipnotiche degli stessi gesti. Ed è da questo disorientamento perseguito con disciplina ascetica – dal 1979 vive isolato in New Mexico (sua moglie, la pittrice Susan Rothenberg è morta nel 2020), in una modesta casa con un enorme atelier, allevando cavalli, circondato dalla terra rossa di una natura aspra – che nascono la maggior parte delle sue opere. Per domare e cavalcare i destrieri, gli ha confidato un cowboy vecchia maniera, è semplicemente necessario prestare la massima attenzione. Bruce Nauman ha fatto suo l’avvertimento smaliziato trasportandolo nell’arte: si è concentrato su di sé, abbandonando il glamour californiano e newyorkese (città dove non ha mai vissuto).
Nella mitologia che costella la sua biografia, quel ripiegarsi sul corpo indagandone tensioni, disagio e capacità di sopportazione scaturì da una povertà di mezzi: racconta Nauman che l’unico materiale a disposizione negli anni sessanta, per mancanza di soldi, era la propria pelle. Serviva per misurare lo spazio e spostarne i confini, mentre per alleggerire i muri c’era il suono e, in seguito, la luce illuminista del neon. Un intero mondo costruito a partire dal corpo, sorgente originaria del détournement percettivo e delle alterazioni gravitazionali.
In fondo, la sua primissima formazione in Wisconsin aveva una base matematica e musicale; la misurazione del margine e quello strenuo combattere con la possibilità della quadratura del cerchio appartenevano al corredo genetico del suo dna.
Dopo il Leone d’oro conquistato alla Biennale di Venezia nel 2009 con il padiglione Usa, Bruce Nauman (1941, Fort Wayne, Indiana) torna in Laguna con una mostra dall’allestimento rigoroso, imbastito con continue affinità elettive e scorribande della macchina del tempo: Contrapposto Studies si snoda nelle varie sale di Punta della Dogana (fino al 9 gennaio 2022), nell’impaginazione che costruisce un alfabeto visivo dell’artista, a cura di Carlos Basualdo e Caroline Bourgeois.
Abile manipolatore di linguaggi (performance, video, danza, fotografia, letteratura, teatro, scultura, scie sonore con numi tutelari Cage e Bartók) con i quali – sulla scorta del pensiero di Wittgenstein – scruta i limiti del mondo, Bruce Nauman ha ripreso in anni recenti a mappare se stesso, cominciando da una rivisitazione di quel Walk with Contrapposto del 1968 che oggi riappare scomposto, espanso e reimmaginato come fosse un’interferenza monumentale animata.
Per «contrapposto» si intende la posizione a chiasmo delle sculture greche del V secolo, quando il dinamismo veniva trattenuto da una posa che bilanciava la tensione con l’armonia del riposo. Così, nel primo video Nauman «rovescia» la classicità con un atteggiamento investigativo, trasformandola in un’impresa «disumana». Vediamo un claustrofobico corridoio (era stato costruito in legno dentro lo studio) inquadrato da una telecamera fissa e l’artista che lo attraversa a fatica, cercando di farsi spazio e di tracciare una linea dritta. Mani sopra la testa, il corpo è in marcata torsione, forzando quella barriera asfittica nel tentativo di evasione. Nell’installazione Contrapposto Studies. I through VII (2015-’16) che, in un certo senso, apre concettualmente il percorso a Punta della Dogana, riecheggia il duchampiano Nu descendant un escalier, per approdare a caleidoscopiche e insolite presenze.
Qui, un Nauman in maglietta e jeans frammenta la sua passeggiata in sette proiezioni, rispolverando il numero sacro delle proporzioni del corpo. La sua fisicità accoglie i segni del tempo, le mutazioni intercorse negli anni, cambiamenti resi ancora più evidenti nell’opera Walks in Walks out (2015) in cui l’artista entra e esce dallo schermo, come fosse un simulacro in 3D. La camminata in contrapposto diventa una elegia della giovinezza perduta, una madeleine da intingere nella pienezza della vita energicamente rappresentata dal movimento asimmetrico appena accennato e dall’equilibrio riconquistato. «Fare arte è un po’ come barare, implica l’inversione delle regole: smontare quelle del gioco per riformularle», sentenzia Bruce Nauman.
L’esposizione veneziana ha un andamento circolare (non è e non vuole essere una retrospettiva), conquista il sapore magico dei mantra e le tappe dell’itinerario, abbracciando una cronologia di mezzo secolo, riconducono sempre al punto di partenza. Nell’insieme, la mostra somiglia a una coreografia misterica, dove le mani di For beginners (tutte le trentuno combinazioni di dita e pollici) compiono un’arcana danza dei segni e i performer che rimbalzano negli angoli (Bouncing in the corner) generano un’atmosfera di attesa tra libertà e reclusione, popolando lo spazio di azioni inaspettate e spaesanti e spingendo l’immaginazione verso «quello che può succedere».
«La mia intenzione – diceva già alla fine degli anni settanta l’artista – è occuparmi del rapporto tra spazio pubblico e privato. Quando sei solo, accetti il perimetro del luogo, riempiendolo della tua presenza. Non appena compare qualcun altro, ti ritiri e ti proteggi. L’altro rappresenta una minaccia».