Bruce Lee è la prima e la più perfetta incarnazione dell’internazionalismo cinefilo sottoproletario. Un’icona insurrezionale che s’incarnava nelle sue perfette movenze da corpo già transgender e che dalle sale di seconda e terza visione del Nord Africa galvanizzava allo stesso modo sia la cinefilia post-cormaniana statunitense della sterminata periferia italiana disillusa dal post miracolo economico. Bruce Lee, eroe sottoproletario «cinese», portatore di una sapienza ancestrale, è il Little Richard e il Jerry Lee Lewis del kung fu. Bruce Lee è il «no» opposto a una tradizione cinematografica e di conseguenza politica e produttiva che attrae nella sua sua sensuale orbita irridentista un altro «no!», a tratti addirittura prepolitico, di un pubblico sottoproletario, di provincia, dal potere d’acquisto limitato e che sognava il suo riscatto nelle gesta di un eroe «giusto».

Scomparso il 20 luglio del 1973, Lee Yun Fan, vero nome mandarino di Bruce Lee, ma noto soprattutto come Li Xiao Long (in mandarino) e Lei Siu Lung (in cantonese), ossia il Piccolo drago, è probabilmente la sola istanza di realismo, intesa in senso strettamente europeo, emersa dal ferreo sistema dei generi del cinema di Hong Kong. Attore prodigio da bambino, inizia ad apparire nel cinema a partire dal 1941 in Golden Gate e The Beginning of a Boy (1946). Nato nel 1940, il 27 novembre, a San Francisco, viene scoperto e lanciato definitivamente a cavallo del 1966 e dell’anno successivo dalla serie tv Il calabrone verde nella quale interpreta il fedele Kato per ben 26 episodi (e non a caso dopo la sua morte, alcuni di questi vennero montati insieme per sfruttare a fondo l’immagine dell’interprete). Lee appare anche in due episodi della serie Batman (A Piece of Action e Batman’s Satisfaction) prima di apparire in Marlowe di Paul Bogart. Dall’altra parte del mondo, a Hong Kong, il leggendario Lo Wei prende nota.

The Big Boss viene distribuito a livello mondiale nel 1971 e consacra Bruce Lee star di primissima grandezza. In Italia il film è intitolato Il furore della Cina colpisce ancora perché viene distribuito dopo il secondo film della Lo Wei-Bruce Lee, intitolato Dalla Cina con furore. A rivederli oggi, ci si stenta a credere che film tecnicamente così approssimativi siano stati proiettati nei cinema popolari di tutto il mondo ottenendo un successo oggi assolutamente incredibile e scatenando la mania dei film di arti marziali. Bruce Lee era ed è un eroe da immigrati, e ha fornito il modello a Sylvester Stallone per l’antropologia di Rocky Balboa. L’identità etnica diventa identità di classe. Bruce Lee è il fantasma che si aggira da sempre nel cinema d’azione mondiale. Il suo riscatto di classe. Il realismo di Lee, infatti, consisteva nel riportare la performance fisica in primo piano. Niente salti mirabolanti, ma un corpo al lavoro. Lee, così facendo, ha aperto la tradizione delle arti marziali all’Occidente. Liu Chia Liang descriveva il Jeet Kune Do, lo stile spurio di combattimento inventato dall’attore, come una sintesi della tradizione meridionale di Shaolin (la boxe Yong Quan), karate nipponico, pugilato, Aikido e Taek Won Do.

L’elemento più importante della rivoluzione di Bruce Lee risiede, però, nell’avere spezzato il monopolio dei fratelli Shaw, unendo le sue forze con Raymond Chow. Ed è proprio con quest’ultimo che fonda la casa di produzione Concord Film Company per la quale realizza L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente, l’unico film da lui diretto (nel quale le suona Chuck Norris e scappa spaventato di fronte a una Malisa Longo molto nuda). Non solo. I film degli Shaw Brothers era parlati in mandarino. Bruce Lee, spezzando il monopolio linguistico imperante, permette al suo eroe di utilizzare il cantonese, la lingua dell’ex colonia britannica, compiendo così una rivoluzione copernicana i cui effetti hanno riscritto il cinema di Hong Kong. Giustissimo, dunque, che il Far East celebri il Piccolo drago.