Bronzi di Riace, kitsch identitario e affaire sociologico
Da Donzelli un libro collettivo a cura di Maurizio Paoletti e Salvatore Settis La fascinazione collettiva, il ruolo degli archeologi, l’identificazione magnogreca: «Sul buono e sul cattivo uso dei Bronzi di Riace», con nuove proposte attributive
Da Donzelli un libro collettivo a cura di Maurizio Paoletti e Salvatore Settis La fascinazione collettiva, il ruolo degli archeologi, l’identificazione magnogreca: «Sul buono e sul cattivo uso dei Bronzi di Riace», con nuove proposte attributive
Faceva molto caldo in quelle mattine dell’agosto 1972, quando migliaia di persone cingevano d’assedio le spiagge di Riace. Persone di tutte le condizioni sociali che si assoggettavano alla calura agostana pur di assistere, anche da lontano, all’uscita dalle acque di due statue di bronzo rinvenute sul basso fondale, poco al largo della cittadina ionica calabrese. Fra la folla, alcune vecchiette nerovestite pregavano verso lo scoglio del ritrovamento, detto dei Santi Cosma e Damiano. I bronzi infatti furono quasi sùbito assunti nell’inconscio dei riacesi come i simulacri dei due santi medici in onore dei quali, due volte l’anno, si svolge un pellegrinaggio. Erano stati trovati, per caso, da un giovane sub dilettante romano, Stefano Mariottini, a soli dieci metri di profondità e poi portati in superficie dai sommozzatori dei carabinieri aiutati da decine, centinaia di volontari. La spiaggia bianca si riempì d’una umanità accaldata e vociante. Li trassero a riva a braccia, li misero in piedi per farsi fotografare sulla battigia, li strofinarono per togliere la patina più superficiale, li adagiarono su materassi posati su improvvisate lettighe lignee che trasportarono, accalcandosi gli uni agli altri, come se portassero un loro parente ferito al Pronto soccorso o come se traslassero, in processione, le sacre reliquie di un loro santo. A fronte di cotanta partecipazione popolare, inizialmente i giornali diedero pochissimo spazio alla notizia, solo un trafiletto locale. Poi quel ritrovamento «spaesante» avrebbe occupato sempre più spazio, fino ad arrivare alle prime pagine e ai tg nazionali. Esso produce ancora oggi una quantità imprevedibile di turbamenti dell’anima di quanti vengono a trovarsi al cospetto delle statue. Dai lontani anni settanta i due atleti di bronzo – antichi, ma allo stesso tempo «nuovi» perché non più visti da alcuno da due millenni – sono stati un affaire non solo archeologico, ma anche antropologico e sociologico, un vero e proprio capitolo di costume italiano.
Adesso un libro a cura di Maurizio Paoletti e Salvatore Settis – Sul buono e sul cattivo uso dei Bronzi di Riace (Donzelli «virgola», pp. XVI+116, euro 20,00) – ricostruisce il clamore che suscitò il ritrovamento dei bronzi e l’uso che se ne fece: reportage televisivi, giornalistici in Italia e in tutto il mondo, poi, per gli otto anni necessari al primo restauro di Firenze, il silenzio. Silenzio che fu rotto dalla prima apparizione pubblica dei Bronzi, presso il Museo Archeologico di Firenze, in tutto il loro splendore classico. Il risultato fu un afflusso di centinaia di migliaia di visitatori tanto imponente ed entusiasta che i giornali dovettero parlare di un fenomeno collettivo di fascinazione, mai riscontrato prima. Una reazione debole ebbero invece gli archeologi che, all’epoca, erano divisi in due opposte fazioni: gli storici dell’arte e gli archeologi militanti della nascente «cultura materiale», ma gli uni e gli altri, secondo Settis, abdicarono alla propria missione civile lasciando il ruolo da protagonista non solo alla folla sulla spiaggia, ma anche alla folla nella mostra e nei musei in cui furono esposti.
Gli archeologi non riuscirono a conquistare, in fondo, mai un ruolo da protagonisti perché la ricerca si concentrò soprattutto sugli aspetti materiali, l’analisi scientifica delle terre di fusione e del metallo, invece che su quelli stilistici e formali. La storia dell’arte antica, come molti sanno, è basata in buona parte su congetture e quelle che riguardano i bronzi si possono riassumere dicendo che le due statue sono state modellate nella Grecia continentale fra il 460 e il 430-420 a.C. e che, facendo parte del carico di una nave, sono affondate insieme a essa in epoca antica non ancora precisata. L’analisi stilistica è giunta a collocare le due statue in un arco cronologico forse ancora troppo ampio, ma utile per ricostruire i nessi con le maggiori scuole artistiche attive in Grecia nel V secolo a.C. Non sappiamo, ancora, con certezza se i due bronzi di Riace siano opera di uno scultore o di due, non sappiamo quando furono rimossi dal sito originario, né quando naufragò la nave che li trasportava.
Questo volume contiene, però, due nuove ipotesi forti e suggestive. La prima, in realtà da poco esposta altrove da Vinzenz Brinkmann, è quella che racconta, ipotizzando un flusso narrativo, che i due bronzi sono due possenti guerrieri realisticamente rappresentati mentre si fronteggiano, l’uno (Eretteo, «Riace A»), armato alla greca, con l’aria un po’ arrogante del vincitore, l’altro (Eumolpo, «Riace B»), con il più leggero armamento trace, e l’atteggiamento di quieta rassegnazione di chi sarà sconfitto. Secondo la congettura di Brinkmann, quindi, le statue erano più o meno contemporanee e facevano parte di un’unica narrazione scultorea sita sull’Acropoli di Atene. La seconda ipotesi, formulata proprio in questo volume da Giuseppe Pucci, propone l’attribuzione a Mirone del «Riace A», identificandolo però come il Tideo descritto in un epigramma di Posidippo (III secolo a.C.), restituito da un papiro recentemente acquisito dall’Università di Milano. La congettura di Pucci è fondata sulla premessa che un eroe che digrigna i denti come fa il «Riace A» non si rinviene in nessun altro monumento dell’arte greca e che, sulla base di molti fondati argomenti, i denti sono il contrassegno di Tideo. Pucci ritiene, dunque, che nel caso del «Riace A» i denti abbiano valore di segno inferenziale che vale a rendere riconoscibile colui che lo esibisce. L’ipotesi di un’attribuzione a Mirone del «Riace A» sembra, in ogni caso, dare nuova consistenza e spessore alla somiglianza, rilevata da Settis, di questa statua con il Doriforo di Policleto e l’Apollo di Fidia, finora noti solo da copie, perché secondo alcune fonti antiche questi due scultori furono, come Mirone, allievi del grande, ma a noi poco noto, Ageladas.
Nella sua ricostruzione dell’«uso» dei bronzi, Paoletti ricorda come il presidente Pertini volle – dopo Firenze, ma prima del loro ritorno al Museo di Reggio – che essi fossero esposti al Quirinale, dove un’altra immane folla si recò in pellegrinaggio, dando, definitivamente, l’avvio al fenomeno delle mostre-evento. A proposito dell’antico e del suo rapporto con il kitsch, che ne rovescia il senso come in uno specchio deformante, bisogna ricordare che i bronzi sono stati i protagonisti di un profluvio di pubblicità ruspanti o grottesche. Provocarono anche un turbamento erotico perché nella loro fulgente nudità vennero riconosciuti e usati, da quella che ora si chiamerebbe bolla mediatica, come portatori di una potenza sessuale quasi indistinta sia verso le donne, sia verso gli uomini, come è testimoniato dalle decine di pubblicità e copertine di giornali, dibattiti sulla sessualità e, persino, dalla pubblicazione di fumetti pornografici.
In un’epoca nella quale i media erano già capaci di omogeneizzare qualsivoglia notizia e di porgerla alle masse depotenziata di ogni valore intrinseco, è venuto facile, auto-consolatorio e rivendicatorio, alla classe dirigente della regione nella quale erano stati rinvenuti e poi musealizzati, «calabresizzare» le statue. Se è vero che ricordando il passato gli uomini lo ricreano attribuendogli un senso che è sempre in relazione alla loro idea del presente; e che i gruppi sociali selezionano, reinterpretano e rifondano il passato alla luce di quel che sono oggi, i calabresi in maggioranza l’hanno fatto accettando, passivamente e mimeticamente, la titolarità identitaria di magnogreci. I bronzi da Riace nobilitano e, per ellissi di attribuzione, inverano, più di ogni altra cosa, questa identificazione che ha disseccato, malauguratamente, tutte le altre radici. Il libro Donzelli, con gli interventi e i saggi di Simonetta Bonomi, Gregorio Botta, Pier Giovanni Guzzo, Carmelo G. Malacrino, Pucci e Mario Torelli, sollecita calabresi e non calabresi a tenere conto del Classico in tutta la sua complessità. Esso riguarda non solo il passato remoto ma è indispensabile per comprendere il presente e per avere una visione del futuro.
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