Tra i primi esami degli effetti della Brexit ci sarà la pesca. Anche in questo settore sulla carta non cambia nulla fino (almeno) al 31 dicembre, ma i due fronti – Gran Bretagna e Ue – già avanzano le rispettive pedine, per uno dei più difficili negoziati. Nella notte dell’entrata in vigore della Brexit se ne è avuto un primo assaggio: le autorità dell’isola di Guernsey, protettorato britannico nel canale della Manica, hanno «temporaneamente sospeso» l’accesso dei pescherecci francesi nelle sue acque.

La pesca è il punto debole della Ue, ma Bruxelles non intende fare concessioni settoriali, perché «tutto è legato», o ci sarà un accordo globale o nessun accordo. La Gran Bretagna non è di questo parere, il premier Boris Johnson ha affermato di voler «riprendere il controllo sulle acque britanniche» e già il 29 gennaio ha presentato a Westminster un progetto di legge per uscire dalla politica comune della pesca. Il settore è esplicitamente citato nella Dichiarazione politica, che ha accompagnato l’accordo di separazione (ottobre 2019) e le parti si sono impegnate a «fare di tutto» per trovare un’intesa di divorzio entro giugno (assieme all’altro settore-chiave, la finanza).

La tensione sulla pesca tra Ue e Gran Bretagna dura dagli anni ’70, al centro ci sono i Tac (tassi autorizzati di cattura) con i britannici che chiedono da quando sono entrati nell’Unione di aumentare le loro quote e i paesi europei interessati che difendono le loro conquiste. Sul fronte Ue ci sono otto paesi in prima linea: Francia, Belgio, Irlanda, Spagna, Olanda, Svezia, Germania e Danimarca. Le acque britanniche sono più pescose di quelle Ue, i pescatori dei paesi Ue pescano per 700 milioni di euro l’anno nelle acque inglesi, contro 154 milioni di euro dei britannici nelle acque dell’Unione, uno squilibrio che potrebbe dare forza negoziale a Londra (tanto più che nessun governo Ue, Francia in testa, ha la forza di far fronte alla prevedibile fronda dei propri pescatori). Ma se si guarda da un altro punto di vista, c’è una forza Ue: il 73% del pescato britannico è esportato nella Ue. I pescatori britannici hanno votato Brexit in massa, Nigel Farage prima del referendum del giugno 2016 aveva fatto navigare una “flotta della Brexit” sul Tamigi. Ma dietro questo voto, c’è soprattutto una protesta contro l’evoluzione che ha avuto questo settore, che non dipende dalla Ue.

Secondo un rapporto di Greenpeace dell’anno scorso, i Tac in Gran Bretagna sono concentrati in sole 25 società di pesca, battezzate codfathers (gioco di parole tra cod, merluzzo e fathers, padrini). I piccoli pescatori, con una o due barche, sono stati poco per volta esclusi dal mercato. Nell’export britannico di pesce verso i mercati Ue parte del prodotto è stato a sua volta importato da Norvegia e Islanda, mentre i piccoli pescatori sono stati messi ai margini. La Gran Bretagna vuole decidere sulle regole che gli altri paesi dovranno rispettare, ma deve tener conto degli sbocchi di mercato del pesce. E anche della Convenzione Onu sui diritti del mare, che stabilisce che uno stato può conservare le proprie “abitudini di pesca” anche quando si esercitano al di fuori delle proprie acque territoriali.