Nella splendida eredità della lirica occidentale è implicita una posta paradossale: la massima concentrazione narcisistica sull’autore, sul suo qui e ora che espunge l’altro, è anche la denuncia muta di quella amputazione e insieme la scommessa, per certi versi paranoica e mai verificabile, di approdo a una verità universale. Ogni lettore riconosce nel suo fascino, provato subito o dopo secoli, la strana euforia di vedere insieme il poeta e se stesso, quel tempo e il proprio.

Spetta alla successiva responsabilità del lettore giungere alle distinzioni, dar voce a quanto rimane indicibile, farsene carico e arma.

Il titolo della raccolta dell’esordiente Stefano Calafiore Niente dirà dove sei (Manni, introduzione di Corrado Benigni, pp. 64, euro 12) proclama fin troppo scopertamente la ferita in questione. I ventuno testi della prima sezione, Passaggi, ci conducono in una dimensione rarefatta con labili apparizioni femminili, spesso per fugace accenno metonimico: «bei volti», «le curve», «nuda e vera», «seria e fiera», «guance rosee».

SOLO DUE ANONIME TRACCE maschili compaiono: «amici intellettuali» e «marinai». D’altra parte, la brevità addotta dal versicolo e dal componimento non permette veri sviluppi narrativi. Ma oltre il portato, per dir così, materiale colpisce l’immobilità irreale in cui si dispongono le silhouette umane, tanto che l’unico movimento esperibile, quasi un affannarsi, è quello del soggetto poetante.

TUTTO PERÒ SI FA CHIARO quando si osservi che il sottotitolo della poesia d’apertura, il corpo (visto da J.S. Sargent), è in realtà la chiave dell’intera sezione, dal momento che gli unici nomi femminili, esposti tra l’altro nel titolo (Virginie Amelie Avegno, Agnew, Flora) sono di dame borghesi ritratte dal pittore statunitense John Singer Sargent vissuto tra Ottocento e Novecento. La sezione è costruita sull’identificazione della voce poetante con il pittore, cosicché la scrittura viene a configurarsi come il doppio della pittura.

SI CHIARISCE ALLORA che il ricorso alla maniera della brevitas ritmico-lessicale, ivi compresa l’assenza dei segni interpuntivi, di certa poesia primonovecentesca ormai grammaticalizzata è vissuta come equivalente del manierismo del fortunato ritrattista del gran mondo. Medesima funzione, sul versante metrico, è assolta dall’attenta simmetria delle partizioni strofiche dei componimenti: alla prevalenza di testi costituiti da una o due quartine, si uniscono altri di una o due terzine, fino a una poesia costruita sulla triplice alternanza di terzina seguita da monostico.

Il titolo Passaggi rinvia non, come potrebbe apparire, a un qualche trascorrere temporale, bensì al proprio costituirsi come doppio della pittura e del pittore. In tale ordito sin troppo levigato, in questa postura svagata non sempre davvero necessaria, avverti comunque qualcosa che contraddice. Da certe pose femminili, incarnati e impasti di colore, improvvisi abbandoni senti affiorare la scena da dove tutto il piccolo rituale di movenze, finzioni, etichette ha preso il via per cercare di aggirarla. È un dolore autentico, è il bruciare dell’assenza: «Ho dato le spalle / a me stesso / in un gioco di specchi / incessante».

IL TITOLO della seconda sezione, Appartenenze, indica invece movimenti di uscita dallo schermo: «Mi osservo / le mattine / per scoprirmi / isolato e lontano». Nei venti componimenti, le stesse simmetrie strofiche del versicolo si fanno appena più mosse.

IL FARMACO RIVELA la sua inefficacia e così, dallo strappo apertosi, filtra ora la nostalgia di paesaggi («quelle strade / portavano /la domenica // negli occhi»), di presenze d’infanzia «dentro quei pomeriggi d’oratorio», del «passaggio di folle». L’affannato «così fermo il tempo» della prima sezione, rivelatosi velleitario, cede alla presa d’atto della sua inarrestabilità, depositata in dolorosi segni sul corpo: «Si noterebbe la pelle / deviata negli anni». Movimento che trova forse il suo punto culminante nel testo che s’intitola Mi guardo: «Decado / preoccupato / mi guardo // pensieroso / Chissà quale parte / di me // tradirà».