Autunno 1981. Il trantran di un gruppo di diciassettenni californiani che frequentano una scuola per ricchi della Los Angeles super-bene viene sconvolto dall’arrivo di un ragazzo affascinante ma disturbato psichicamente. Cosa nasconde e qual è il suo legame con il Pescatore (nome con il quale la stampa chiama un omicida seriale che imperversa in città)? In una Los Angeles plastificata e violenta, fatta di feste in piscina a base di musica, alcol, sesso, marijuana, cocaina e pillole di ogni genere, convivono allegramente serial killer e figure ambigue del jet set hollywoodiano. Bret Easton Ellis racconta in soggettiva questa storia oscura e sembra l’unico ad accorgersi dei pericoli che aleggiano attorno ai coetanei, dediti a trascorrere le giornate nel più totale vuoto esistenziale. Coincidenze inquietanti si susseguono e il protagonista, futuro scrittore, le filtra attraverso la propria immaginazione adolescenziale dalle evidenti doti letterarie, nel momento in cui sta scoprendo il proprio orientamento sessuale e cercando una collocazione nel mondo del cinema, come sceneggiatore.

CALIFORNIA DISTOPICA
Dopo oltre un decennio di silenzio, le circa 800 pagine de Le schegge (Einaudi, 2023, euro 23) ci riportano ai fasti del miglior Ellis: ambiguo, misogino, violento, critico verso la società americana ma incapace di rompere la quarta parete di un mondo dal quale non esiste fuga possibile. Il romanzo dice molto e omette altrettanto. La California, sulla carta uno dei posti più creativi del mondo, un luogo dove il futuro scintilla, diventa una distopia. Non sono tanto gli adolescenti vacui e edonisti, quelli ce li aspettiamo così, è piuttosto il regno degli adulti a non mostrare alcun segno positivo. I personaggi che ruotano intorno ai ragazzi sono privi di morale, assenti, fatui, inadeguati, malati di mente. Siamo tornati al mondo già abbozzato nel corrosivo esordio di Ellis Meno di zero (1985), popolato di parvenu che frequentano gli studios, droghe, vite disperate. Tutto è come allora, sembra dirci l’autore che chiude il cerchio e torna all’adolescenza. I riferimenti alla musica e al cinema pervadono Le schegge: l’onnipresente film Shining (1980), le stanze dei ragazzi addobbate di poster con le star del pop o del cinema, mentre a bordo piscina si sfogliano riviste di rock o di moda. Canzoni sempre diverse marchiano ogni pagina del libro, i musicisti risplendono sulla carta patinata; domina una dimensione visiva della musica.
Un passaggio esplicita questa visione della vita: «Erano il sesso e i romanzi e la musica e i film a rendere la vita sopportabile – non gli amici, non la famiglia, non la scuola, non la scena sociale, non le relazioni – e quella era stata l’estate in cui una settimana sì e una no avevo visto I predatori dell’Arca perduta ma avevo cenato a stento un paio di volte con i miei genitori separati. Non investivo nel mondo reale – perché avrei dovuto? Non era fatto per me o per i miei bisogni o desideri».

SERIAL KILLER
La musica occupa una posizione centrale nel lavoro di Ellis. I suoi protagonisti, citano maniacalmente le canzoni che amano, ricordando dettagli superflui come la posizione in classifica. Raramente le citazioni musicali bucano il muro della superficialità. In American Psycho (1991) incontriamo la personalità disturbata di Pat Bateman: di notte killer sanguinario, di giorno rispettabile yuppie di Wall Street, impegnato in una vita effimera, il cui unico valore sono i soldi, tra ristoranti di lusso, ragazze frivole, colleghi ricchi, locali modaioli dove al fresco dell’aria condizionata «aleggia un jazz leggero».
Nel racconto, a fianco del pop rock che colloca il romanzo sul finire degli anni Ottanta (Inxs, Cristopher Cross, Belinda Carlisle, George Michael, Madonna, Bon Jovi, U2), abbiamo capitoli in cui Bateman spiega in termini a metà tra la pseudocritica da fanzine e le recensioni delle riviste specializzate il proprio entusiasmo per i Genesis (meno per la carriera solista di Phil Collins), Whitney Houston, Huey Lewis and The News, Michael Jackson, Sade, il Miles Davis elettrico, Paul Butterfield (abbastanza inspiegabile) e Bobby McFerrin. Il romanzo propone diversi saggi del Bateman-pensiero musicale dove il protagonista parla con la retorica di un ufficio stampa e la superficialità da giornalista televisivo. Al culmine splatter del libro Bateman ha perso contatto con la realtà; l’ossessione per abiti e griffe si estende o ogni dettaglio: legge il Wall Street Journal «ascoltando, con il walkman, una cassetta di Bix Beiderbecke, mentre indossa occhiali Ray-Ban». Alla acutizzazione della malattia si aggiunge la citazione volutamente fuori contesto di Beiderbecke. Poche pagine prima ascoltava Sting. Come se Ellis volesse rispecchiare nella figura bipolare di Bateman il frullatore pop postmoderno che miscela ingredienti lontani, creando un succo incoerente ma «bevibile».
In qualche occasione ne Le schegge, i testi delle canzoni entrano nella trama, come espedienti narrativi. Spesso la musica ha un rapporto sinestetico e Bret ricorda le situazioni o i dialoghi a partire da cosa stava ascoltando in autoradio, a casa, dai diffusori a bordo piscina, come sottofondo delle feste glamour dell’alta borghesia immobiliarista, finanziaria o cinematografica delle zone agiate di Los Angeles/Hollywod. La musica attiva la memoria: un mondo di plastica e angosce adolescenziali rifiorisce riga dopo riga per un arco narrativo dalla durata abnorme. Se si supera il primo centinaio di pagine Ellis vince, ci imprigiona in un reticolo di memorie anni Ottanta, ma questo non diventa mai, come potremmo aspettarci con una mole simile di citazioni dall’archivio musicale del periodo, un effetto nostalgia, lascia solo malessere psicotico.

«SOGNO PREFABBRICATO»
Le schegge fotografa in particolare la new wave nella fase matura, alle soglie dell’era del video: Mtv nasce il primo agosto di quel 1981 e Bret e i suoi amici di ritorno dalle vacanze si ritrovano con una musica che implacabilmente vira verso l’immagine. Graham Parker, Linda Ronstadt, Go-Go’s, Gang Of Four e, citatissimi, gli Ultravox.
La musica ha già smesso da qualche anno di essere un calderone unitario per decomporsi in sottogeneri ed etichette varie. Tra gli ascolti domina il glam rock con spruzzate di tutto il resto: punk, rock classico, art rock, arena rock, pop, con una lunga teoria di artisti e gruppi, alcuni ben noti o in attività, altri semi-dimenticati: Tubes, Tom Petty, Doors, Peter Gabriel, Reo Speedwagon…
L’autore-protagonista parla continuamente in prima persona… la storia diventa una casa degli specchi. I ragazzi della cerchia del giovane Bret che frequentano la prestigiosa High School californiana sono immuni a ogni sorta di penetrazione del «mondo» nella loro sfera. Gli adulti sembrano (o sono?) marziani che vivono in una realtà parallela. Parlando del Jonathan Club, il più esclusivo di LA, di cui all’epoca dei fatti narrati era presidente Ronald Reagan (ancora oggi c’è un’ala dedicata a lui) l’autore sottolinea come il fatto che il ritrovo non accogliesse ebrei o neri e le donne non potessero diventare socie non significava nulla per quei figli di papà. «Potevamo permetterci di guardare a ogni cosa attraverso il prisma dell’insensibilità», scrive Ellis, un autore che si è prefissato il compito di passare ogni singola pagina del voluminoso racconto a ricostruire davanti ai nostri occhi questo – sono di nuovo parole sue – «sogno prefabbricato». Raramente lo scrittore esce allo scoperto con un giudizio di valore più radicale, più dolente e autoevidente. Vi risuona l’eco del monito di Gertrude Stein: «Siete tutti una generazione perduta». Ernest Hemingway lo volle come epigrafe de Il sole sorge ancora (1926) in un certo senso un libro perso e generazionale come quello di Ellis, il cui prisma dell’insensibilità è l’epitaffio di una leva americana crogiolatasi nel benessere reaganiano ma che si porta dentro un cancro inestirpabile, curato – senza molto success o- con droghe, sesso, violenza e musica new wave.