«Scheletriti nell’oscurità, i miei padri oscuri / giacciono ignoti, e non seppero capire / il dolore gigante che calpestava notte e giorno, / la terribile assenza sulla terra avvilita». Sono versi di Brendan Kennelly, prolifico poeta e critico irlandese, autore relativamente sconosciuto in Italia. Fino ad oggi, perché è uscita di recente, con una sentita introduzione di Tommaso Kemeny e una serie di significative appendici tra cui uno scritto del Presidente d’Irlanda Michael D. Higgins, una importante raccolta di suoi componimenti, The Essential, tradotti da un’equipe di studiosi (G. Bendelli, R. Barone, M. Cataldi, F.M. Paci – Jaca Book, pp.288, euro 18.00).

Kennelly è un autore che sa affrontare con levità i temi più delicati, i nodi cruciali dell’esistente. E racconta con onestà e senza timori la sua cultura irlandese che da sempre si regge su equilibri assai precari: tra il suo ibridismo di fondo, linguistico soprattutto, e le minacce che un tempo erano politiche e militari, e oggi sono principalmente di tipo economico.

UNA «CULTURA MORTUARIA», in un certo senso, come ebbe a definirla Declan Kiberd, allievo di Kennelly al Trinity College di Dublino; e del vecchio professore rammenta un vecchio monito che racchiude lo spirito profondo dell’irlandesità: «in Irlanda grazie alla morte si ottiene quel che non si è riusciti a ottenere in vita, ovvero un posto assicurato nei ranghi della borghesia: si diventa tutti più rispettabili».
Uno dei temi chiave della poesia di Kennelly è il fatto che la morte, lungi dal dover essere tenuta a debita distanza, è invece parte della vita, ed è per questo che bisogna prendersi gioco della sua solennità, ma anche rispettarla profondamente.

LA POESIA di cui sopra prosegue così «…provengo dal Kerry, dalla sua argilla e roccia, / celebro l’oscurità e la vergogna capaci / di costringere l’uomo a voltar la faccia / contro il muro, sottratto a una luce così intensa…». È una luce che, come ricordava il Nolano, è la causa prima dell’ombra in cui viviamo, ma anche la sua fine, e il suo confine.
In questa consapevolezza risiede l’eredità del testimone che Kennelly prende da artisti vissuti in Irlanda prima di lui. Come Kavanagh, altro poeta da noi virtualmente ignoto: un fabbro delle parole che impastava nei versi il suolo duro e amaro della sua Monaghan; o Heaney, nella cui poesia si sente acre l’odore delle torbiere del Nord.
Siamo di fronte a una sorta di umanesimo materialistico ma anche mistico; esattamente come quello intravisto dal Kennelly critico, nella scrittura di un altro gigante irlandese, Joyce, che sul solco di Wilde aveva fatto della sua arte la propria vita. E viceversa.

BRENDAN KENNELLY viene dal Kerry, il sud selvaggio dell’isola d’Irlanda, ma anche una delle sue anime più indomite. Eppure il suo messaggio, politico prima di tutto, è di riconciliazione; di perdono forse, ma mai di oblio. Pervadono i suoi versi, come avevano ispirato la sua opera critica, il ricordo e la consapevolezza di un presente che nella certezza della scomparsa ci rende tutti uguali.

I lunghi anni dublinesi e la notorietà di personaggio pubblico, senza diluire il suo messaggio di fondo hanno forse colorito i suoi versi di una accettazione dell’essere e del vivere non privo di conflitti – ne sono prova le poesie in cui campeggia quel Cromwell campione di libertà in Inghilterra quanto di infamie e ferocia in Irlanda. Senza voler bypassare alcuna frizione, Kennelly tenta di comprendere e ricomporre gli attriti da cui muove, ma in cui a volte s’impantana, l’umanità: «Un guerriero grida / e chiede pietà per lo scempio; / un re svanisce / e la notte rabbrividisce. / Non dimostra ogni stagione / che la ghianda cade a terra?»

LA LINGUA di Kennelly è una lingua del popolo. Un misto di vernacolo del Kerry, soprattutto delle comunità del nord della contea, e di parlata dublinese da pub: quei pub in cui non era difficile vederlo in anni in cui uno dei suoi ruoli pubblici era anche quello del raccontatore, dello story-teller.
La profonda umanità di cui si nutre il suo linguaggio arriva diretta, al lettore dei suoi versi, avvicinando i due piani della vita e della poesia, troppo spesso percepiti soltanto nella loro distanza.
La poesia si traduce in vita, e la vita in poesia. Sembra questo il messaggio principale di un poeta come Brendan Kennelly, a suo modo erede di una lunga tradizione bardica in cui la versificazione sapeva distillare lo spirito più rarefatto, ma non per questo più astratto e immateriale, di quel che siamo e di quel che vorremmo diventare.