«Mi hanno proletarizzato. Non mi hanno tolto solo la mia casa, il mio stagno con i pesci e la mia macchina, mi hanno derubato anche del mio teatro e del mio pubblico». Così lamentava Bertolt Brecht in una conversazione con Walter Benjamin, nel 1938, a Svendborg, in Danimarca. Con i guadagni dell’Opera da tre soldi si era comprato una sei cilindri Steyr e una casa, a lungo agognata, nell’Alta Baviera. Ma dopo poche settimane aveva dovuto abbandonare tutto e fuggire, da un momento all’altro, come sarebbero fuggiti poi migliaia e migliaia di artisti, intellettuali, scienziati, perseguitati politici: un esodo di massa che avrebbe investito quarantuno paesi in tutto il mondo.

Brecht lasciò Berlino subito, nel 1933, il giorno dopo l’incendio del Reichstag. Fece praticamente il giro del mondo: Austria, Cecoslovacchia, Svizzera, Danimarca, Svezia, Finlandia, Unione Sovietica, infine la California. Poi, nel 1947, arrivò a Berlino Est. L’esule è colui che erra per il mondo «cambiando paese più spesso delle scarpe», recita il verso di una sua poesia.

Ma Brecht si sentiva esule già prima, disse una volta Walter Benjamin: da comunista eccentrico viveva nella Repubblica di Weimar in una sorta di cripto-emigrazione. Così Arnold Zweig avrebbe potuto notare che le splendide liriche del ciclo Dal libro di lettura per gli abitanti della città rappresentano il mondo urbano già con gli occhi di un profugo.

Anni di creatività
Poi i nazisti diedero una mortale concretezza a questo spazio della non-appartenenza, dove le case hanno porte «per fuggire», come recita un altro suo verso, dove le possibilità di agire e interlocuire con gli altri sono estremamente limitate, e quasi del tutto perduti sono gli averi e i mezzi di produzione: il proprio teatro e soprattutto il pubblico politicamente avvertito che dava senso ai suoi lavori. «È impossibile terminare un dramma senza il palcoscenico», annotava Brecht nel 1940. «Solo la scena può decidere fra le varianti possibili». Eppure di drammi, in quegli anni, ne scrisse tanti, alcuni dei quali sono diventati classici del teatro moderno.

Gli anni dell’esilio furono per Brecht anni di eccezionale creatività anche nella lirica, nella teoria, nella prosa, che conta alcuni capolavori, fra i Dialoghi di profughi scritto in gran parte nel 1940 in Finlandia e apparso postumo nel 1961. L’anno dopo Einaudi ne pubblicò una traduzione italiana, ora riproposta da L’Orma in una nuova ed elegante edizione ampliata (traduzione di Margherita Consentino, rivista da Eusebio Trabucchi, inediti a cura di Marco Federici Solari, pp. 160, euro 17,00).

Siamo nel 1940, nella Finlandia neutrale ma presidiata da due divisioni motorizzate tedesche. I nazisti hanno già occupato Danimarca e Norvegia e avanzano in Francia. Due sconosciuti si incontrano per caso al ristorante della stazione di Helsinki e, attenti a non dare nell’occhio, si mettono a parlare della loro condizione di profughi, dei paesi in cui hanno cercato rifugio e di mille argomenti di politica, anzi di biopolitica, diremmo oggi, ma anche di filosofia. Sono il fisico Ziffel e l’operaio comunista Kalle, entrambi antifascisti, che attraverso le loro conversazioni ricostruiscono quello spazio proprio, comune e riparato, che l’esilio ha loro strappato. I dialoghi dei due hanno qualcosa di allegro, esprimono una vitalità irriducibile, una voglia di divertirsi anche quando si ragiona su questioni di sopravvivenza. Costretti dall’esilio all’inazione, si concedono il lusso del pensiero e riprendono in mano la loro vita.

La forma dialogica è mutuata da Jacques le fataliste, il romanzo di Diderot, il tono plebeo da un altro celebre romanzo, Le avventure del bravo soldato Schweik nella grande guerra di Jaroslav Hašek, il modello a cui Brecht si ispira – qui come in altre opere – per elaborare una prospettiva dal basso capace di rendere in un linguaggio popolare questioni filosofiche e politiche anche di grande complessità. I due profughi parlano del principio di indeterminazione di Heisenberg, oltre che di Marx, e della Scienza della logica di Hegel, che Ziffel definisce «una delle più grandi opere umoristiche della letteratura mondiale».

Spaesato ma non travolto
Parlando di Hegel, lo stesso Ziffel pronuncia la frase più celebre del libro: «La migliore scuola di dialettica è l’emigrazione». Per Brecht la condizione dell’esiliato è quella che più stimola il pensiero dialettico, perché pone l’individuo in balia di cambiamenti continui e lo costringe a studiarli ininterrottamente per riconquistare la capacità di agire. È proprio quanto accade ai due interlocutori di questi dialoghi. Non si fronteggiano con opinioni contrastanti, ma da posizioni differenti lavorano insieme per comprendere i mutamenti che si trovano a subire e per cercare un modo per intervenirvi. Così alla fine escono dalla condizione di osservatori impotenti cui sembrava condannarli l’esilio e passano all’azione: fondano una ditta per la disinfestazione dalle cimici. La metafora, per quanto umoristica è fin troppo palese.

L’umorismo è in Brecht il segno di un pensiero che sa lasciarsi spaesare senza farsi travolgere: dalle svolte continue che la realtà storica impone, dalle contraddizioni laceranti che vi si manifestano, dalle urgenze che essa indica. Brecht chiama questo pensiero dialettico, per intendere una strategia di riflessione che non mira a esprimere una verità o una visione del mondo, ma ad ampliare la capacità di agire e di immaginare alternative per il futuro. Questo pensare è per Brecht un piacere, perché scaturisce da una difficoltà e produce un’azione per superarla.

Quel che conta dei concetti che formuliamo sta, per lui, nell’effetto che possono produrre in un determinato contesto, nella possibilità di maneggiarli come armi o strumenti per «muovere le cose», che a loro volta muovono la nostra esistenza e tendono a imprigionarla.