Che Cesare Brandi sia stato davvero «un incantevole compagno di strada», come si legge sulla austera copertina di Scritti su Cesare Brandi 1946-2017, volume edito da Silvana Editoriale (pp. 357, euro 28,00), lo si capisce con chiarezza fin dal sommario che apre il libro. È quasi una vertigine, infatti, quella che coglie il lettore nello scorrere i nomi degli autori degli ottanta testi – recensioni, testi d’occasione, prefazioni, talvolta saggi più ragionati e densi – che Vittorio Brandi Rubio, allievo, figlio adottivo e infaticabile curatore dell’eredità culturale del critico senese, ha qui raccolto e organizzato in cinque sezioni che restituiscono le differenti sfaccettature dell’attività scientifica e creativa di Brandi: Lo scrittore, Il filosofo dell’arte, La forma del saggio, Il teorico del restauro, Il critico e lo storico dell’arte. Da Carlo Bo a Franco Fortini, da Benedetto Croce a Gio Ponti, da Nicola Abbagnano a Umberto Eco passando per Giorgio Manganelli, Dino Buzzati, Maria Luisa Spaziani, Emilio Cecchi, Geno Pampaloni, Achille Bonito Oliva, Fabio Sargentini, Cesare Segre e ancora Raffaele La Capria, Valerio Magrelli, Elisabetta Rasy, Alberto Arbasino: sono questi soltanto alcuni dei compagni di viaggio con cui Brandi ha negli anni condiviso, in maniera più o meno diretta, un pezzo della sua lunga strada intellettuale e umana.
Sono voci molto diverse, tutte autorevoli, ordinate nell’architettura asimmetrica – è decisamente più nutrita la sezione di apertura, in cui sono confluite le note e le recensioni dedicate agli scritti «letterari» di Brandi – di un’antologia che rappresenta senz’altro un utile, a tratti anche sorridente, viatico per chi voglia accostarsi al pensiero e alla scrittura, veramente «abitata dalla poesia», di Brandi. Un libro che si offre anche come un grande affresco della cultura italiana della seconda metà del Novecento, una stagione di grandi mutamenti e contraddizioni cui Brandi, nato a Siena nel 1906 e scomparso nel 1988, è stato protagonista riconosciuto eppure irregolare perché, come sottolinea Giuseppe Appella nell’introduzione, «Brandi non appartiene alla schiera canonica dei prosatori d’arte». Attraverso la lente, opportunamente deformante, delle tante prospettive critiche raccolte da Rubiu in questo polittico, il singolare percorso di ricerca di Brandi si mostra, in effetti, tanto ricco quanto sfuggente ai rigidi, e spesso ottusi, steccati disciplinari. Attraverso i frammenti, a volte davvero luminosi, organizzati in questo libro emerge il ritratto di uno studioso irrequieto eppure rigoroso, davvero un «umanista» (Rasy) capace di tenere insieme con grazia interessi plurali e complementari: la giovanile vicinanza al cenacolo de «La Ronda», l’attenzione per la pittura senese e per l’arte bizantina, il corpo a corpo teso con le urgenze della filosofia e dell’estetica contemporanee, la sensibilità per i turbamenti dell’arte e della critica dopo «la fine dell’avanguardia» e, naturalmente, l’impegno per il restauro, in cui Brandi ha riconosciuto non soltanto una pratica sapiente ma una teoria e un metodo d’indagine storico-critica di attualità indiscussa, non si oppongono ma si intrecciano a quella che Pampaloni definisce la sua vocazione da «journaliste (da ‘journal’ più che da giornale)», alla passione per il viaggio e per l’incontro con orizzonti e luci, con sapori e odori sconosciuti. E sono davvero tante e colorate le pietanze che punteggiano i più o meno esotici diari di viaggio, da Pellegrino di Puglia a Diario cinese, così come sono frequenti e talvolta folgoranti le epifanie olfattive: nel racconto del suo viaggio in Iran Brandi descrive, ad esempio, il «profumo, dilagante, ignoto e squisito» di Persepolis, un profumo, nota Sargentini, probabilmente immaginario, «un cuscinetto d’aria» necessario a stemperare l’imponenza architettonica delle rovine. Nei suoi giornali di viaggio, ha scritto Cecchi, Brandi «non porta in giro i suoi teoremi estetici ma dà l’impressione d’una creatività inesauribile», creatività che si riflette nei commenti dei suoi lettori d’eccezione, che non perdono l’occasione di sovrapporre il proprio profilo a quello di Brandi, in un gioco di rispecchiamento, simulazione e dissimulazione, talvolta felicissimo: così Giorgio Manganelli, altro inarrivabile scrittore viaggiatore, non esita a riconoscere (riconoscersi) in Brandi «falsario di genio» e a definire il suo italiano «leggero e croccante», mentre Dino Buzzati si inventa in visita a Martina Franca «col professore».
Diverso, ma non meno partecipe, il discorso di chi con Brandi ha condiviso soprattutto il lavoro critico e l’impegno nelle istituzioni. È, questo, il caso di Giulio Carlo Argan, che con lui ha progettato l’Istituto centrale per il restauro, quel mitico ICT di cui lo stesso Brandi è stato il primo, indimenticato direttore. Proprio ad Argan si deve una delle notazioni più affilate sulla scrittura del critico: «Brandi – ha notato l’allora sindaco di Roma recensendo nel 1977 una raccolta di scritti sull’arte contemporanea firmata dall’amico di sempre – è certamente il solo per cui esista un linguaggio e non solo una terminologia della critica». Un riconoscimento decisivo che dà la misura dell’unicità del contributo di Brandi, il quale nel suo lavoro di critico d’arte ha scelto ora la forma classica del dialogo (Carmine o della pittura, Arcadio o della scultura, Eliante o dell’architettura, Celso o della poesia) ora il respiro nervoso del saggio senza mai venir meno all’attenzione, e verrebbe da dire alla cura, per la singolarità dei suoi differenti oggetti di studio. Un itinerario profondamente originale, capace di resistere anche ai più fermi tentativi di annessione: uno per tutti, quello, ricordato da Paolo D’Angelo, da parte di Benedetto Croce. Grazie alla sua «coraggiosa inattualità» (Eco) l’opera di Brandi ha saputo creare, lo sottolinea Appella, «un effetto di lunga durata», di cui ora questo libro corale è prova e appassionato documento.