Il Consiglio dei ministri che deve approvare la riforma della giustizia è una via crucis che si interrompe dopo pochi minuti e riprende un paio d’ore più tardi andando avanti fino a notte fonda. La sospensione, ufficialmente, è dovuta alla necessità di avviare lo scioglimento di alcuni consigli comunali ma non è un mistero per nessuno che anche sul fronte della giustizia le posizioni dei soci siano molto distanti se non opposte.

Per Di Maio, al quale lo strafalcione sulla «povertà sconfitta» non ha insegnato nulla in materia d’iperbole, la riforma del guardasigilli pentastellato Bonafede è addirittura «epocale». Pertanto si augura «che nessuno voglia bloccarla: sarebbe un grave danno per il Paese».

Salvini però non la vede precisamente allo stesso modo: «Questa riforma è acqua. Serve altro. Serve più coraggio».

Esterna il gran capo leghista ma il giudizio inappellabile è di Giulia Bongiorno, ministra della Pubblica amministrazione e principessa del foro. È lei a girare verso il basso il pollice sulla riforma Bonafede e con lei il leader ha messo ha punto la linea di condotta nella lunga pausa prima che il Cdm di ieri tornasse a riunirsi.

Per la Bongiorno, dunque per la Lega, la riforma non incide davvero sui tempi del processo. Fissa il tetto in 6 anni (rispetto ai 9 inizialmente previsti dai 5S). Troppi. Anche sulle regole in merito all’accesso alla magistratura c’è da ridire: non sono rigide a sufficienza e in generale tutta la regolamentazione delle carriere dei magistrati è per il Carroccio quasi insignificante.

Ci sono però, sullo sfondo, poste in gioco più alte: la separazione delle carriere (a cui la Lega non ha rinunciato), la regolamentazione delle intercettazioni (un’ipotesi che ai pentastellati fa venire l’orticaria solo a nominarla) e il vero nodo: la prescrizione.

Il varo della riforma della giustizia è infatti pregiudiziale perché diventi effettivo, a partire dal primo gennaio 2020, il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. La «Spazzacorrotti» infatti fissava l’avvio del blocco già dal primo gennaio scorso.

La mediazione raggiunta con la Lega ha poi posticipato il tutto di un anno e soprattutto ha subordinato il varo a una riforma complessiva.
Per i 5Stelle eccola qui. Per Salvini neanche per idea. La riforma in questione deve essere «imponente, decisiva, storica». Sennò non se ne fa niente e si torna ai termini di prescrizione precedenti.

Lo scontro è reale, non solo uno dei tanti capitoli della guerriglia tra i soci di maggioranza, giocata soprattutto sul fronte della propaganda.

L’apoteosi di quella guerra solo mediatica sarà, martedì e mercoledì prossimo, l’inutile voto al Senato sulla Tav.

Ieri per ore ha circolato la voce di una decisione del Pd e di Fi di disertare l’aula per portare alle estreme conseguenze la divisione tra i soci di maggioranza. Incidentalmente quella scelta avrebbe anche finito di trasformare il Parlamento in una specie di circo, utile solo per innescare la grancassa dei social. Poi il capogruppo Marcucci ha smentito: i suoi senatori saranno in aula. Voteranno contro la mozione No Tav dei 5S e a favore della propria.

Chi invece voterà solo contro la mozione pentastellata ma poi si asterrà e anzi non è escluso che finisca per scegliere di lasciare l’aula è la Lega. Una mossa che serve a parare il colpo dell’accusa di intelligenza col nemico piddino, con la quale i 5S martellano da giorni.

Certo, in questo modo è possibile che nessuna delle mozioni ottenga la maggioranza. Per la Tav non sarebbe un problema, del resto non lo sarebbe neppure se passasse il testo 5S che «impegna» solo il Parlamento, non il governo (sic). Per il Parlamento, che apparirebbe come istituzione incapace anche solo di esprimere un parere, invece, sarebbe un esito devastante.