La donazione dell’archivio di Mario «Mischa» Scandella da parte del figlio Giovanni all’Istituto per il Teatro e il Melodramma della Fondazione Giorgio Cini ha permesso alla direttrice dell’Istituto Maria Ida Biggi di allestire, assieme ai docenti della Scuola di Scenografia e Costume dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, Nicola Bruschi e Lorenzo Cutùli, negli spazi, ottimamente allestiti, dei vecchi Magazzini del Sale, una mostra deliziosa, La scena magica. L’arte teatrale di Mischa Scandella, aperta fino al 28 aprile, che comprende bozzetti scenografici, figurini e costumi di questo interessante artista.

Scenografo, appunto, e costumista Scandella lo fu per molti registi, da de Bosio a Poli, a Momo, a Strehler, con alcuni dei quali nel 1945 aveva fondato L’Arco, un gruppo di sperimentazione e ricerca. Personaggio originale, questo Mischa, nato a Venezia nel 1921, che aveva fatto, oltre alla Resistenza, molti mestieri, fra i quali anche il soffiatore di vetri. In una intervista dichiarò un giorno d’amare soprattutto il buon vino e le belle donne, come Don Giovanni. E alla tradizione del teatro settecentesco lo apparentava, d’altra parte, pure quella sua maniera di lavorare, schizzando i bozzetti ovunque, perfino all’osteria, come affermò una volta. Se fosse vero, chi può dirlo?

Ma questa consuetudine improvvisatrice si concilierebbe con quella Commedia dell’arte verso la quale mostrò tanta affezione e che conobbe i suoi ultimi bagliori con le buffonate fantastiche e un po’ rustiche di Carlo Gozzi, nelle quali molti attori recitavano a soggetto. Il fatto che Scandella rivendicasse la passione per la manualità artigiana – cosa che si trasmette da tutti questi disegni – nulla toglie alla sua modernità. Qualche critico sui giornali parlò all’epoca di «realismo magico», e l’impiego, tanto comune nei suoi lavori, d’oggetti tratti dal vero, storicamente plausibili, ma come stilizzati e scarnificati, fino ad assumere un’evidenza visionaria, giustificherebbe una simile definizione. E se, negli esiti più immaginosi, cogliamo fra questi fogli echi di Savinio (la catasta di templi nella scena dell’Anfitrione), di Ernst (quella bizzarra meridiana sempre nell’Anfitrione) o di Clerici (il Settecento disseccato, quasi gotico dei bozzetti per L’amore delle tre melarance), è invece a un Ensor o a un Maccari che ci vien fatto di pensare, tutte le volte che lo stile s’incrudisce.

Il genere di realismo di Scandella riusciva, infatti, accostabile all’espressionismo. Un espressionismo un po’ incantato forse, della qualità che si trova in alcune pellicole di Powell e Pressburger, ma pur sempre tale. Lo si vede in quelle sue case, che paiono alle volte d’intiepidita cera, nelle viuzze sghembe, negli archi emaciati, eretti in un universo affilato e irto, come memoria fossile d’un mondo svanito. Lavorò anche per la televisione: lo scelsero per i loro progetti più singolari e ricercati Antonioni (Il mistero di Oberwald) e Cottafavi, come vediamo nello schermo collocato nell’ultima sala.

In un’epoca, inoltre, nella quale si rifletteva sul linguaggio teatrale, Scandella ne mise a nudo i meccanismi, utilizzando prospettive, mises en abyme, quinte dentro le quinte e quelle macchine sceniche tanto in voga nel teatro barocco. Molti dei testi, come l’Anfitrione di Plauto, Girotondo di Schnitzler o La resistibile ascesa di Arturo Ui di Brecht, gli offrivano certo il destro, ma non si può forse credere che parte dell’incanto dei suoi sfondi derivi proprio dal fatto che, nella nostra epoca, rotta a ogni stupore, l’amore dell’illusione scenica, come Schiller diceva della poesia, invece che ingenuo, non possa che essere sentimentale?