Danny Boyle è un regista autoritario. Riteniamo sia un dato evidente. Un mero amministratore di effetti di sceneggiatura minuziosamente studiati a tavolino. Il dispositivo di riproduzione è la macchina che esibisce il funzionamento macchinico del racconto come (merce del) piacere mentre contemporaneamente ne occulta le meccaniche. Il dominio sulla materia-cinema è esibito come evocazione di una maestria che si rivela attraverso l’eccessodell’effetto (segno della «modernità» dello «stile») ma allo stesso tempo negata alla partecipazione perché segno segreto della professionalità della produzione. «Unicità» del gesto registico che si offre come irripetibile in quanto espressionedella macchina della produzione.
Come dire: il capitale è indivisibile. In questo senso Christopher Nolan è la prosecuzione «autoriale» di Danny Boyle: la parodia tanto elefantiaca quanto involontaria dell’isolazionismo kubrickiano, non a caso salutata dai crossmediali allo sbaraglio e dagli orfani del plot come ritorno al racconto.
Boyle, invece, tra bassi e bassissimi, ha continuato a rivestire l’identità di un regista stagionale, sempre legato alla trovata di turno. Per certi versi, quindi, In Trance potrebbe essere il film in grado di rappresentare il Boyle-pensiero sino alle sue estreme conseguenze.
Avvolto nelle spire del plot di Joe Ahearne, il film si offre come una sterile macchinazione dalle ambizioni noir dove ogni parvenza di racconto è messa in crisi da un costante rovesciamento di fronte del quale è lecito chiedersi se non si tratti di una traslazione dell’impotenza (desiderata? Invocata?) dello spettatore tipo cui questo genere di lavori è diretto.
Il funny game di Boyle cela dietro le apparenze libertarie di un racconto che (finge di) gode(re) anarchicamente della decostruzione della possibilità di qualsiasi punto di vista, un universo concentrazionario nel quale i segni sono disposti deterministicamente all’interno di un numero di soluzioni date.
In Trance
è il corollario di Inception: la sotto-directory della sotto-directory. In quanto tale si muove all’interno di un orizzonte immobile nonostante la frenesia del montaggio e l’accumularsi isterico di dettagli e torsioni di sceneggiatura.
Come in 127 ore, Boyle mette in luce un virtuosismo esasperato tale da provocare l’involontaria stasi del racconto. Non è un caso che i protagonisti si facciano portatori, enunciandoli, dei twist più improbabili di sceneggiatura. E tutto gira talmente ossessivamente in un universo autoreferenziale da provocare il calo totale di qualsiasi tipo di partecipazione dello spettatore.
Ciò che richiede il film tipo di Danny Boyle è l’ammirazione reverenziale «immobile» caratteristica della dimostrazione di un teorema. Per cui nonostante alcuni scoppi di violenza decisamente grafica, virtuosismi visivi e di montaggio e saturazioni audio-video sempre sul punto di implodere, In Trance procede con la fredda determinazione di una macchina efficientissima, dimenticandosi subito di quella caratteristica evanescente legata appunto agli stati di coscienza che oscillano fra la veglia e il sonno. Inevitabilmente in questo tipo di (rac)conto (che torni o meno non conta), l’indicatore dei piaceri è sempre un elettro encefalogramma piatto. Che nemmeno Rosario Dawson riesca a penetrare l’arroganza segnica di In Trance, la dice lunghissima, appunto, sulla matrice autoritaria del cinema di Danny Boyle.