«A vent’anni, sono stato gravemente ferito da un colpo d’arma da fuoco. Il mio corpo era sottratto alla vita: per amore di essa, sognai in un primo tempo di distruggerlo. Ma gli anni, che mi rendevano l’infermità più presente, seppellivano l’intenzione di sopprimermi. Ferito, già diventavo la mia ferita. Sono sopravvissuto in una carne che era la vergogna dei miei desideri». L’incipit del Meneur de lune, libro autobiografico sui generis, rivisita obbligatoriamente il drammatico ferimento, avvenuto al fronte il 27 maggio 1918, che spezzò in due l’esistenza di Joë Bousquet (1897-1950). Il poeta e scrittore francese resterà infatti paralizzato per il resto dei suoi giorni, tra inenarrabili sofferenze in parte mitigate dall’uso della morfina, nel letto della sua camera in penombra a Carcassonne, dedicandosi con piglio oltranzista alla stesura di innumerevoli cahiers. Qui stabilirà una stimolante successione di incontri con artisti di rilievo come Max Ernst, Magritte, Dalí, Bellmer, Tanguy, Klee, Masson, Fautrier, Dubuffet (arriverà a collezionare oltre 150 dipinti, a cui attribuirà titoli fantasiosi, ricorrenti nei suoi testi) e con letterati del calibro di Éluard, Aragon, Valéry, Gide, Benda, Paulhan e Simone Weil. La precarietà della condizione di quest’«uomo amputato della realtà», come lui stesso si definiva, diventerà paradossalmente una sorta di «sole sotterraneo», l’occasione per approfondire, attraverso la dimensione variegata di una scrittura puntigliosa e ondivaga, la sua riflessione esprimente, secondo l’accezione di Blanchot, «un’autentica iridescenza intellettuale».
Esce ora per AnimaMundi Edizioni Una passante blu e bionda (pp. 88, € 12,00), testo di difficile inquadramento (diario, prosa poetica, racconto?), inedito in italiano, in cui si rievocano i reiterati incontri con un’adolescente dai tratti angelici ed evanescenti. Osserva Paolo Mottana nell’introduzione: «Il racconto, scritto intorno al 1930, che come accade sempre nella scrittura “ininterrotta” di Bousquet, non ha trama né articolazione progressiva, è un tortuoso trapasso in una sorta di zona di penombra, dove il sogno e la veglia scivolano l’uno nell’altra. Le percezioni che Bousquet traduce per noi in parole appaiono cangianti, mobili, imprendibili, espresse in grovigli, serpentement, spirali in cui soggetto e oggetto ma anche attributi e verbi contribuiscono a sospingere in un cosmo integro, unitario, globalizzante». Il libro, uscito originariamente nel ’34 presso René Debresse, è tradotto più che dignitosamente dallo stesso Mottana e da Alice Zanzottera, anche se si sente la mancanza di un apparato esegetico adeguato.
Nel nostro paese è stato decisivo al riguardo il contributo di Adriano Marchetti che ha curato opere di fondamentale importanza come Tradotto dal silenzio (Marietti 1987), Da uno sguardo un altro e La conoscenza della sera (entrambi Panozzo,’87 e’98), Il quaderno nero (ES 2004), la Corrispondenza con Simone Weil (SE 1994), soffermandosi a investigare con acribia e solerzia un pensiero non di rado di ardua classificazione. Se la parola di Bousquet si nutre infatti di alcune metafore basilari come quelle del silenzio e dell’ombra, filtrate dalla crudeltà dell’esilio quotidiano nel romitaggio di Carcassonne, la sua opera non sarà che un’ininterrotta variazione intorno a una sequela circoscritta di immagini che andranno fortemente a connotarla. Tali immagini, nella loro semplicità, nella loro linearità, cadenzano come meteore l’universo costituito da «notes d’inconnaissance» che permeano un’opera rigorosa, disseminata di particolari annotazioni pseudodiaristiche atte idealmente a coniugare spunti scaturiti da una sorgività di stampo primigenio con un’oscurità di fondo sempre incombente. Ma, nonostante la frequentazione con poeti ed artisti di chiara derivazione surrealista, niente è più lontano dal modello compositivo adottato da quest’asceta della parola del sommeil hypnotique che caratterizza il dettato di Desnos o Crevel.
Infarcita di ossimori («la luce della menzogna», «fuochi innevati», «un linguaggio che aveva il suo silenzio nella luce») e polittoti («La sua voce non incontra in me che una voce», «la stella fugge la stella»), la prosa di Bousquet si configura come un’elegante, inesausta interrogazione intorno alle dinamiche che sottendono i più disparati rapporti da cui risulta impossibile districare, come in un groviglio vegetale, il frutto salvifico di un verbo innocente. La scrittura, quello che Blanchot definisce «abuso di linguaggio», equivale a un approccio sistematico, che vorrebbe avere connotazioni di tipo ontologico, con una realtà dai tratti indefinibili e sfuggenti. La parola sostituisce il corpo, si fa essa stessa corpo, cicatrice, ferita. Sguardo soprattutto: Papillon de neige, D’un regard l’autre. Il logos si mummifica, diviene crisalide scarnificata nell’immobilità del catafalco. «Ho attraversato tutto per venire a cercarmi nelle rovine del mio corpo» si legge nel citato Meneur de lune.
Non vi è uno sviluppo riconducibile a modelli creativi consolidati, neppure di matrice modernista, ma un movimento che procede a strappi, alternando digressioni di origine speculativa a visioni che si avvicendano come falene intorno alla fiamma bachelardiana di topoi elementari. Si tratta di non sentire «altro che il mio essere interiore, cioè quello che dissimulo». E ancora, con frammenti di taglio aforistico, essenziali come l’arabesco di un graffito rupestre: «La mia giovinezza ha la sua pura verità nel miracolo di un dolore che dura per sempre».