Scomparso nel 2002, in questa annata epidemica Pierre Bourdieu avrebbe compiuto novant’anni. Sembra sia il sociologo più citato al mondo, certamente è uno dei peggio conosciuti e pretestuosamente criticati. Le ricorrenti polemiche faticano a nascondere la salutare irritazione che le sue riflessioni inducono nei politici lontani dai mondi sociali, nei giornalisti superficiali, nei fast-thinkers da salotto televisivo o negli accademici senza qualità. Questi operatori del dominio non saranno quindi interessati alle quasi mille pagine del Dictionnaire international Bourdieu, fresco di stampa per le edizioni del Cnrs francese (pp. 963, euro 39). Si tratta di una monumentale enciclopedia, con oltre seicento voci redatte da un centinaio di autori provenienti da venti paesi (con i francesi in ampia maggioranza). Un testo che dovrebbe essere presente nelle sale di consultazione di tutte le biblioteche, anche perché il suo costo è davvero contenuto, se lo si rapporta a quantità e qualità dell’opera e a quel che costano i libri di ricerca nel nostro paese.

Curato da Gisèle Sapiro, sociologa della letteratura purtroppo mai tradotta in italiano, con il supporto di un comitato editoriale fortemente presente nella redazione delle voci, questo dizionario assume due prospettive: è un’operazione «pedagogica», tesa a fornire un’introduzione alla sociologia bourdieusiana, ma si pone allo stesso tempo una finalità «riflessiva», mirando a ricostruire la genesi di quella sociologia e la socio-storia della sua ricezione. Conseguentemente ospita un ventaglio variegato di tipologie di voci.

PIÙ DI UN TERZO delle voci riguarda concetti della sociologia bourdieusiana, attorno alla triade fondamentale: «capitale», con le sue diverse «specie» (le principali sono il «capitale economico», il «capitale culturale» e il «capitale sociale»), che chiamano in causa anche il «capitale simbolico», cioè il riconoscimento, e dunque il ruolo dello «Stato»; «campo», come spazio sociale differenziato, relativamente autonomo, retto da rapporti di forza fra «posizioni» e solcato da lotte fra «prese di posizione» per ridefinirli (grazie a Marco D’Eramo nel 2002 manifestolibri ha meritoriamente pubblicato due importanti saggi di Bourdieu in materia, Campo del potere e campo intellettuale); «habitus», il sistema di disposizioni incorporate progressivamente dagli agenti, che permette loro di improvvisare «pratiche» e «strategie» che risultano spontaneamente adattate al proprio gruppo e al contesto sociale. Il Dictionnaire insiste anche sulla «violenza simbolica», cioè sull’imposizione che dissimula il proprio fondamento, per capire il dominio al di là dell’alternativa coercizione/consenso.

I lettori del manifesto apprezzeranno le voci che affrontano criticamente alcune categorie classiche del marxismo, come «capitalismo», «lavoro», «classe» (e «coscienza di classe»), «proletari», «sindacati», «rivoluzione» e persino «comunismo/partito comunista». Fra le altre, notevole la rilettura che Bourdieu e Loic Wacquant hanno fatto dell’«astuzia della ragione» hegeliana, come universalizzazione imperialistica dei problemi specifici agli Stati Uniti.

UNA QUARANTINA di voci riassume le principali opere di Bourdieu, in larga parte tradotte in italiano, come La distinzione del 1979, sintesi delle sue ricerche francesi su gusti, consumi e classi sociali, o Il senso pratico del 1980, che sistematizza la «teoria della pratica» elaborata nel confronto antropologico con società in trasformazione, a partire dalle indagini algerine degli anni Sessanta. Attende una traduzione, invece, Il ballo dei celibi, splendida raccolta di saggi sulla «crisi della società contadina» nella sua regione natale.

Un altro gruppo di voci riguarda figure intellettuali. I più citati, non casualmente per un sociologo del Novecento, sono Weber, Durkheim e Marx, seguiti da Lévi-Strauss e Sartre, poi da Bachelard e Canguilhem, da Foucault, Heidegger e Mauss e anche da Manet e Flaubert, ai quali Bourdieu ha dedicato ampi studi. Han tutti una voce specifica, tranne Marx, un’assenza davvero curiosa, dato che Bourdieu è stato spesso considerato un antimarxista o un marxista mascherato, due letture fuorvianti. C’è tuttavia una lunga e densa voce dedicata al «marxismo», ove Laurent Jeanpierre insiste sul mutamento delle posizioni del sociologo, pur nella costante polemica con il marxismo, specie francese (Althusser e la sua scuola), in nome di un «materialismo simbolico» critico dell’economicismo e dell’oggettivismo. Al fondo, si riconosce che Bourdieu concorda con Marx e fa continuo riferimento alle sue opere, contro le tendenze idealiste e positiviste nelle scienze sociali e per la funzione critica della conoscenza.
Il lettore curioso andrà inoltre a scoprire perché ci sono voci dedicate allo scultore Alexandre Calder, all’attore comico Colouche e al sociologo delle migrazioni Abdelmalek Sayad.

NON MANCANO nuclei consistenti di voci su correnti e paradigmi (come «genere» o «teoria critica»), su metodi e approcci (riassunti in «metodo» e «metodologia», ma anche nella voce che Anna Boschetti ha dedicato al Mestiere di sociologo, splendido manuale prodotto nel 1968 dalla collaborazione con Passeron e Chamboredon) e sulle varie discipline che hanno dialogato con le proposte di Bourdieu. La sua opera ha infatti una portata che eccede largamente il campo della sociologia. Si vedano, ad esempio, le voci sullo studio del passato: fra molte altre, ritroviamo «storici», dedicata a relazioni «mai semplici» e spesso «ambivalenti», tali da nutrire «malintesi» e «rivalità», e «storia», dovuta a Christophe Charle, che segnala il ruolo centrale delle trasformazioni storiche e della storicizzazione nell’opera di Bourdieu, in un movimento complessivo teso a far saltare la distinzione fra sociologia e storia.

È NUTRITA anche la serie di temi e di oggetti degli studi di Bourdieu (come i «professori», le diverse classi sociali, la «casa» e la «famiglia»), a cui si possono accostare le voci su istituzioni, eventi, periodi e luoghi. Inevitabili e cruciali sono «Algeria» e «Maggio 68», al centro di opere fondamentali del sociologo, che diventò tale ad Algeri in piena crisi coloniale e ruppe con Raymond Aron durante l’anno degli studenti. Nella voce «Italia» Marco Santoro si interroga sulla «lenta» ricezione della sua opera nel nostro paese, dando conto di progressi piuttosto recenti e di «ostacoli» persistenti. Vi sono oggi molti studiosi italiani che lavorano con le categorie e i metodi di Bourdieu. Per non far torti a nessuno si menziona qui solo il recente testo introduttivo di Andrea Girometti (Il reale è relazionale. Studio sull’antropologia economica e la sociologia politica di Pierre Bourdieu, Orthotes), una ricca e densa trattazione centrata sulla nozione di capitale, sul rapporto con il marxismo e sulla sociologia politica.

Per quanto questo dizionario sia un’opera destinata a un pubblico colto, la sociologia di Bourdieu non è importante solo per gli studiosi, data l’attenzione alle classi subalterne e l’animo critico verso le gerarchie del mondo sociale. Negli anni Novanta il sociologo si è dato a una serrata militanza nei movimenti contro l’austerità e il neoliberismo. Il titolo di un bel documentario dedicato a questa fase di impegno da Pierre Carles nel 2001, mai trasmesso in televisione in Francia e mai portato nelle sale italiane, prende spunto da una delle tante espressioni memorabili di Bourdieu: La sociologie est un sport de combat.

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SCHEDA. Conversazioni su Bourdieu

Venerdì 8 gennaio alle 16 (Piattaforma Microsoft Teams) nell’ambito dei Seminari del gruppo di ricerca Officina Bourdieu
Conversazioni a partire dal libro di Andrea Girometti, Il reale è relazionale. Studio sull’antropologia economica e la sociologia politica di Pierre Bourdieu (Orthotes, Napoli-Salerno, 2020). Interviene l’autore in dialogo con Andrea Borghini