A Milano, generalmente nel silenzio generale, è routine sbattere in mezzo alla strada cinque o sei famiglie alla settimana. Da anni. Ma adesso che se n’è accorto e ci marcia anche il Corriere della Sera il clima è cambiato. In peggio, anche se la sostanza del disagio abitativo è sempre la stessa: ci sono quasi 250 famiglie che dormono per strada, 8 mila appartamenti pubblici vuoti, 23 mila famiglie in graduatoria per un alloggio popolare e circa 5 mila occupanti «abusivi storici». Che non sono delinquenti: la maggioranza è in attesa di regolarizzazione, anche da più di un decennio, e ci sono famiglie che pagano l’affitto all’Aler pur sapendo che potrebbero essere sgomberate da un giorno all’altro. Sono persone senza soldi che la mattina hanno paura ad uscire di casa. Più che un problema di legalità, è una questione di giustizia sociale.

Se questo è il quadro, sul campo cominciano a palesarsi anche le soluzioni. Però le peggiori: non investimenti per nuove politiche abitative pubbliche da parte della Regione o del Comune, ma, come invoca la nuova destra che è già in campagna elettorale, solo uso della forza e recrudescenza degli sgomberi violenti. L’esibizione dei muscoli per cacciare gli abusivi sta cominciando proprio in queste ore, con l’attuazione del «piano» annunciato dalla Prefettura che promette di «liberare» nei prossimi giorni almeno duecento alloggi occupati, grazie a una «task force» decisa in accordo con il governatore lombardo Roberto Roberto Maroni e il sindaco di Milano Giuliano Pisapia.

Visti i numeri dell’emergenza abitativa, i risultati non saranno apprezzabili, però si moltiplicheranno gli episodi di violenza come quello di ieri in via Vespri Siciliani (zona Lorenteggio) dove per impedire uno sgombero alcuni «antagonisti», circa una cinquantina, si sono scontrati con la polizia. Forse è questo l’unico elemento di novità che sta emergendo nella nuova guerra tra poveri scatenata ad arte proprio nella città più ricca d’Italia, dove il potere è sempre andato a braccetto con il mattone: c’è un soggetto nuovo (chiamiamolo come ci pare, antagonisti, centri sociali, comitati per la casa o militanti) che ha deciso di spendere le sue energie per agire aggredendo la questione che più sconvolge la vita reale delle persone. Non avere un tetto, peggio del lavoro che manca. Quando si dice tornare a fare politica per stare dalla parte di chi ha più bisogno, la cosa più difficile per chi si dice di sinistra. Tornare nelle periferie, dove l’atmosfera è più livida e respingente rispetto ad altri terreni di scontro con «il potere», che si voglia contestare l’Expo o l’Alta velocità.

Mai come in questi casi si può dire che ci va di mezzo anche la polizia. Ma sarebbe davvero fuori luogo esercitarsi nel solito giochino dei buoni e dei cattivi. La resistenza allo sgombero di ieri è stata violenta, con lancio di pietre e cassonetti rovesciati (la polizia ha risposto con i lacrimogeni). Tra agenti e manifestanti si contano una decina di contusi. Ma violento di per sé è stato anche lo sgombero: in via Vespri Siciliani abitavano una madre e due bambini. Una situazione intollerabile, da qualunque punto la si guardi.

La situazione è esplosiva e l’incapacità della politica di reagire al procurato allarme non aiuta, se non un tipo come Salvini. L’approccio più ragionevole lo ha suggerito la sezione milanese di Libera criticando il ricorso alla forza: «E’ una materia delicata che va affrontata caso per caso, distinguendo gli abusi dalla morosità incolpevole, dall’occupazione per necessità, le vittime di lungaggini burocratiche, le vittime del racket, e non certo con provvedimenti muscolari che colpiscono indiscriminatamente, espongono le famiglie a gravi rischi e non colpiscono gli autori del racket. Per questo chiediamo al prefetto al Comitato per la sicurezza di non procedere agli sgomberi programmati, ma di avviare invece un tavolo di lavoro e di confronto per individuare strategie di intervento pubblico che non siano ingiustamente repressive, che perseguano il racket e mettano il patrimonio pubblico di case al servizio di quei ceti meno abbienti che ne hanno pieno diritto». Forse è troppo tardi.