Come un argonauta Lucy ha attraversato il ’900 affrontando orrori e contraddizioni e oggi all’età di novantasei anni resiste al tempo per raccontare la sua storia, un’esistenza che apre uno squarcio profondo sull’umanità e il senso della vita. Già autori del lungometraggio Il contagio (2017) e di Et in Terra Pax (2020) storie di sopravvivenza nella periferia romana, con uno sguardo intimo e semplice i registi Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, restituiscono in C’è un soffio di vita soltanto il ritratto straordinario di Lucy Salani, all’anagrafe Luciano, sopravvissuta al fascismo e agli abusi da parte di un prete, alla guerra e al campo di Dachau da cui liberata tornò ad affermare con orgoglio la sua identità e indipendenza.

Dopo l’anteprima al Torino Film Festival, il film ha iniziato il suo viaggio nelle sale e il 27 gennaio è stato presentato alla Cineteca di Bologna per il Giorno della memoria.

Come avete conosciuto Lucy?
Coluccini: Scorrevo la bacheca di Facebook e ho visto per caso un’intervista rilasciata da Lucy in cui parlava della sua deportazione nel campo di Dachau. Con Matteo abbiamo capito subito che era una storia molto particolare e facendo delle ricerche abbiamo visto che era stato fatto ben poco per una vita così singolare.
Attraverso diversi amici siamo arrivati al Cassero di Bologna, l’associazione Lgbt che ci ha messo in contatto con Ambra una ragazza presente anche nel documentario. Tramite lei siamo andati a trovare Lucy e abbiamo passato un pomeriggio chiacchierando e annunciandole che volevamo realizzare un documentario. Siamo tornati da lei qualche settimana dopo e abbiamo fatto tre giorni d’intervista fiume dove Lucy ci ha raccontato tutta la sua vita. All’inizio, volevamo fare un documentario classico, però andando avanti con le riprese ci siamo accorti che ci sarebbe piaciuto raccontare la sua storia attraverso la sua quotidianità e le persone che orbitano intorno a lei.

Qual è stata la prima reazione di Lucy alla proposta del progetto?
Botrugno: La prima cosa che ha pensato, ma che non ci ha detto subito: «ecco qua altri due rompi scatole» poi si è detta che eravamo due poverelli che non avevano ne anche i soldi per girare il film e ha voluto aiutarci. All’inizio non sapevamo bene cosa sarebbe venuto fuori, avevamo solo l’idea di voler raccontare questa storia di resistenza e d’identità che resiste. Ma Lucy ogni giorno è stata una sorpresa, in ogni sessione di riprese tirava fuori delle storie incredibili. Piano piano si è creata una vera amicizia, alla fine era un po’ un rapporto tra nipoti e nonna. Fin dal principio, abbiamo capito che poteva reggere tutto il film da sola e anche in questo è stata straordinaria, perché non è semplice accettare di trovarsi in casa tre videocamere e raccontare in modo aperto una storia così complessa. In più, questa esperienza ci ha permesso come registi di metterci in secondo piano rispetto a quello che accadeva, era più importante la sua storia rispetto al nostro film. C’è sempre una dose di egocentrismo altrimenti non fai questo mestiere, ma in questo caso ci interessava trovare il modo di narrare la storia di Lucy e alla fine da due siamo diventati tre, poi è arrivato un coproduttore italiano, una coproduttrice tedesca, la Rai e Sky.

Rispetto alle vostre opere precedenti questo film è diverso da punto di vista del genere e della narrazione. Come avete lavorato alla scrittura e poi al montaggio?
Coluccini: Non siamo partiti da un testo, abbiamo preferito andare lì ogni giorno e immergerci nella sua quotidianità. Quello che abbiamo costruito sono gli incontri con le persone che normalmente vanno a casa sua, nel senso che abbiamo chiesto a Lucy di avvisare che noi saremmo stati lì con le videocamere e avremmo ripreso i loro incontri. Ma non sapevamo cosa sarebbe successo, ed è stato diverso dalle nostre esperienze precedenti dove avevamo un piano di lavorazione. Un set è un po’ come una gara nel senso che ti alleni per tanto tempo e il giorno della gara metti sul sensore della camera quello che hai preparato. Qui invece avevamo una tela completamente bianca. Il grosso del lavoro è stato fatto al montaggio dove abbiamo cercato di dare una forma agli eventi che avevamo raccolto. Venendo da due esperienze di cinema fortemente organizzate, la libertà totale di girare quello che vuoi è stato per noi una ventata di aria fresca.

Molti documentari sfruttano materiale d’archivio della seconda guerra mondiale, voi invece avete lavorato con del materiale totalmente diverso. Perché questa scelta?
Botrugno: Abbiamo scelto un linguaggio non accademico, di non montare parallelamente alle interviste la solita marcetta fascista, ma cercare del materiale che potesse mostrare cosa c’è nella testa di Lucy. Lei è una grande appassionata di film di fantascienza, infatti dice che alla fine del suo percorso sulla Terra partirà per altri pianeti per vedere se ci sono altre forme di vita. Così per raccontare questo aspetto siamo andati a scovare filmati di stelle, eclissi, pianeti, fino a trovare vecchie pellicole mai utilizzate di cellule che formano nuove forme di vita. Questa scelta è in linea sia con il titolo del film, la frase di una poesia di Lucy, sia con i nostri lavori precedenti dove in qualche modo ci stacchiamo dalla realtà per entrare in un mondo più intimo e poetico.

La straordinarietà di Lucy è che non sembra avere età, ha una mente aperta proiettata verso il futuro come i suoi film di fantascienza.
Botrugno: non a caso abbiamo inserito nel film un dialogo di Avatar, per cui è in fissa totale, dove dicono «benvenuto nel tuo nuovo corpo». Lucy non ha mai rinunciano al suo nome perché gli è stato donato dai suoi genitori, per lei una persona è donna a prescindere dal nome perché la sua identità e volontà è quella. Questo è un pensiero molto avanti rispetto all’epoca in cui è cresciuta dove non c’era attivismo; è verso gli anni ’60 che sono iniziate le attività politiche legate all’identità e all’orientamento sessuale e Lucy , all’epoca, aveva già sessantanni.

Questo vostro essere un passo indietro pronti ad accogliere la storia di Lucy ha creato il tempo e lo spazio per far emergere un tema molto delicato, la pedofilia nella Chiesa.
Botrugno: Questo è un argomento oggi ancora tabù, infatti, interrogandoci se parlare o meno di certi argomenti abbiamo pensato che se avessimo fatto un film su questo tema ci saremmo scontrati con il dubbio di fare una certa pornografia artistica parlando di morbosità. Qui è stata Lucy che spontaneamente ci ha parlato di questi episodi e del suo rapporto con la fede, di come è cambiato il suo punto di vista dopo quello che è successo. E abbiamo cercato di rispettare questa spontaneità sia durante l’intervista, cercato di non essere morbosi nelle domande, sia nel montaggio.
Coluccini: Per lei è difficile parlare di alcune cose quindi abbiamo cercato di essere rispettosi dei suoi sentimenti. Quello è stato l’unico momento in cui ci ha parlato di questo argomento e raccontato di quegli episodi. Forse, per lei è stato il trauma più grande della sua vita, anche più del campo di concentramento. Il prete all’epoca era una voce autorevole, denunciare l’abuso sessuale non era accettato e non eri creduto anche se eri un bambino. Solo in questa occasione ci ha chiesto di spegnere le telecamere per qualche momento, cosa che non è mai accaduto. Per lei è un argomento molto doloroso e noi abbiamo cercato di rispettare questo «dono» che ci ha fatto riportandolo integralmente. Lucy ti restituisce un umanità disarmante, lei non ha sovrastrutture è così come la vedi ed è questa secondo me la forza del film, credi a quello che dice e sa farti partecipe della sua storia.