«Pronto… Professore buongiorno… La disturbo?» «Ovvio che mi disturba. Se avessi voluto parlare con lei l’avrei chiamata io, non le pare?» Così, Boris Pahor, ma dopo poco riecco la sua voce: «Che roba stupida ho detto! Mi perdoni». Ironico anche con se stesso, sarcastico, diretto, capace di un buonumore contagioso come glacialmente secco nei malumori. Egocentrico, difficile averci a che fare, ma stimato come maestro di vita da parecchi.

BORIS PAHOR è il più grande scrittore triestino di lingua slovena vivente e questo 26 agosto compie 108 anni, affaticato ma ancora perfettamente lucido. Scrittore prolifico come pochi, triestino da sempre, sloveno di lingua e di affetti. Parlare con lui è come ascoltare il Novecento.

Così orgogliosamente legato alla sua lingua e alla sua gente da farne il perno attorno al quale ruota tutta la sua scrittura, lineare, scabra, senza cedimenti al patetico anche se racconta di campi di sterminio e persecuzioni. Forse, proprio per questo, ancora più spietata.

Una vita dura, segnata dalla violenza che già da bambino lo colpisce e che ha un nome per il quale se non c’è rancore non c’è comunque perdono: «fascismo». Una vita con tanta capacità di amare senza limiti, senza gabbie intellettuali, anche davanti ad argomenti scabrosi, tracciati tutti con quella speciale capacità di scavare nell’animo umano con il solo riportare fatti, parole, sguardi. La sua scrittura sembra frutto di una ripresa cinematografica, precisa, esterna, meccanica, eppure capace di restituire una enorme empatia.

«L’istanza principale che mi sono sforzato di rappresentare è l’insofferenza per ogni forma di limitazione della libertà dell’Uomo. È un valore etico essenziale, quello che, almeno per me, muove ogni volta le corde dell’indignazione e che mi ‘costringe’ a prendere la penna e scrivere».

Boris Pahor che, bambino nel 1920, assiste inorridito al rogo del Narodni Dom, simbolo sordo e violento di un governo che, diventato poi dittatura fascista, si rifiuta di riconoscere i più elementari diritti a coloro che erano suoi cittadini. Tanti episodi che, con la deportazione nei campi di concentramento, segnano la vita di Pahor e diventano materia della sua produzione letteraria che è racconto biografico e, insieme, esempio di dramma universale.

COME RIFLETTE la senatrice Tatjana Rojc, scrittrice e studiosa di letteratura slovena e letterature comparate: «la sua è la generazione dei “giovani senza gioventù”: quando i ricordi ancora non possono e non devono far soffrire, Pahor ne è stato derubato. La gioventù è divenuta un periodo privo di vie d’uscita e base per quell’amarezza di fondo che impedisce ai sopravvissuti di gioire del dono, come se dovessero intendere la gioia come qualcosa di peccaminoso, qualcosa che era stato impedito ai compagni morti. Perciò il concetto di libertà in amore rappresenta la continua speranza di ritrovare qualcosa che è andato inesorabilmente perduto».

Si è dovuto aspettare il 2008 perché l’editore Fazi lanciasse sul mercato italiano la traduzione del suo libro più conosciuto, Necropoli, scritto e pubblicato in sloveno più di quarant’anni prima grazie all’accordo tra una casa editrice triestina e una di Maribor. Il libro aveva ricevuto già da tempo un grande apprezzamento in Europa e non era stato l’unico tradotto all’estero ben prima che in Italia, tanto che Pahor aveva ricevuto dalla Francia la Legion d’Onore e anche Germania e Austria gli avevano tributato massime onorificenze.

Nel 2008 Necropoli diventa subito un caso letterario di grande successo e si può dire che Boris Pahor abbia alzato un velo, scrivendo e parlando: far sapere al più vasto pubblico italiano cos’era stata la snazionalizzazione degli sloveni, cosa aveva significato essere ritenuti barbari incolti da italianizzare, da violentare nelle radici più profonde, la lingua, le tradizioni, la cultura.

Come onorare i 108 anni di vita di uno scrittore, di un uomo, discusso, amato e odiato, comunque così presente? Walter Chiereghin, direttore della rivista online di arte e cultura «il Ponte rosso», e Fulvio Senardi, critico letterario e Direttore dell’Istituto giuliano di Storia, Cultura e Documentazione, hanno voluto offrire ai lettori un libro che è su e per Boris Pahor, una raccolta di saggi e interviste di scrittori italiani e sloveni.

UN LIBRO che ha raggiunto le trecento pagine ma che si legge con piacevole scorrevolezza: testimonianze e aneddoti, la persona, i libri, la storia. Un caleidoscopio di punti di vista sulla vita e le relazioni, sui valori etici e la forza vitale, probabilmente l’opera più completa pubblicata sullo scrittore triestino. Italiani e sloveni assieme, come italiana e slovena è la collaborazione tra le due case editrici triestine che hanno creduto nell’iniziativa. Come italiana e slovena sarà la sua presentazione: al Narodni Dom il 24 agosto e allo storico Caffè San Marco il 27.

«Siamo veramente uomini di cultura che in nome dell’umanesimo e della democrazia formiamo una nostra Europa unita in miniatura» ha sempre detto Boris Pahor ed è giusto riproporre, in chiusura, l’augurio che gli fece lo scrittore e giornalista Paolo Rumiz al traguardo dei cent’anni: «Auguri falchetto Boris, appostato sul mare al tramonto, alto tra le vigne, occhio azzurro da bambino tra le rughe, fuscello indistruttibile, fragile testa dura, groppo di adolescenza e memoria lunga. Tieni duro».