Dire «farsa» oggi è correntemente un insulto: in una vertenza, in un’analisi, in politica. Ma la farsa era invece un genere nobile e necessario del teatro, e non solo italiano (dove per altro sono nati molti dei geni spettacolari del secolo scorso nel nostro paese). «A gentile richiesta, seguirà una comicissima farsa» era l’annuncio apodittico e indiscutibile che la compagnia «all’antica italiana» D’Origlia-Palmi faceva risuonare nell’intervallo delle loro sublimi e terrificanti «vite delle sante»: aveva un valore liberatorio, quasi catartico come il dramma satiresco dopo le trilogie tragiche. Quasi una premonizione del successivo e politicissimo «una risata vi seppellirà». Lo sapevano bene a Napoli, che di quel genere comico e liberatorio è stata capitale con esiti eccelsi, Totò in testa.

La farsa, e la sua possibilità contemporanea, è il genere che esplora oggi uno dei registi più seri e impegnati della nostra scena, Massimiliano Civica. Che anzi ne ha commissionato espressamente una, contemporanea, al suo drammaturgo di fiducia, Armando Pirozzi: Belve – una farsa (al teatro Metastasio fino a domani pomeriggio). La farsa, con i suoi meccanismi indefettibili (tempi, reazioni, paradossi, contraddizioni e soprattutto il finale, che rovesci in happy end l’aggrovigliarsi dell’intreccio) richiede attori provetti, in grado di tenere e governare i ritmi di un racconto sempre sull’orlo del paradosso. E proprio sul lavoro con gli attori Civica ha sempre puntato e investito, tanto più ora che finalmente, quasi rompendo un tabù generazionale, è stato riconosciuto consulente artistico del teatro di Prato.

Alcuni degli interpreti di questa farsa hanno già lavorato con lui, come Monica Demuru e Alberto Astorri, altri hanno modo di esprimere ora la propria vena comica e paradossale, come Aldo Ottobrino, Vincenzo Nemolato (rivelazione dello scorso anno con il Mamet dei bassifondi napoletani), Salvatore Caruso e Alessandra De Santis. Tutti aderiscono al meccanismo implacabile del paradosso farsesco, che dietro le convenzioni più «perbeniste» mette a nudo lo sfracello della convivenza borghese.

Il processo «farsesco», in tempi che si ritengono molto evoluti, è in realtà abbastanza incognito per lo spettatore, che sicuramente tende a tratti a resistere all’evidenza del paradosso, oltre il quale nessuna sicurezza è più possibile. La «vicenda» di queste Belve vede due coppie, una ospite l’altra ospitante, reciprocamente prevenute e belligeranti, addirittura con i padroni di casa determinati a uccidere gli altri. E poi altri due figuri, tutori del male o dell’ordine poco importa, in funzioni di arbitri complici. Proprio la funzionalità (dell’intreccio, delle motivazioni, delle risoluzioni) è il bersaglio senza pietà della messinscena. Nella farsa non ci sono vincitori né sconfitti, tutti sono condannati alla insensatezza del caso, compresa la risolutrice quanto improbabile conclusione rosea.

Su quel percorso necessariamente «accidentato» (altrimenti non farebbe ridere) la regia di Civica dissemina piccoli particolari di crudele umanità. Come il combustibile etilico della padroncina di casa, e la sua ipocrita pulizia; o la disinvoltura armaiola quanto inconcludente del marito, o ancora le stoltezze a due voci degli ospiti. Se non si ride come un tempo accadeva davanti a una farsa, il sorriso è comunque acido. E lo spettacolo è un utile percorso di formazione, per il pubblico, su come assistere e partecipare ad ogni rappresentazione, anche la più seria e impegnativa.