La Nave di Teseo continua meritoriamente a riproporre le opere di Giuseppe Antonio Borgese (Polizzi Generosa, 1882 – Fiesole, 1952). Dopo le traduzioni dei due saggi composti in inglese intitolati Fondamenti della Repubblica mondiale, presentato per la prima volta in italiano, e Golia. Marcia del fascismo, originariamente pubblicato negli Stati Uniti nel 1937 e trasposto nella nostra lingua da Mondadori nel ’46, è ora la volta di Romanzi e racconti (pp. LXX-1016, € 45,00). Il volume, ben curato da Gandolfo Librizzi e prefato da Salvatore Ferlita, presenta, pressoché integralmente, l’opera narrativa di Borgese, suddivisa in due ampie sezioni. Nella prima sono contenuti i romanzi che diedero lustro alla figura dell’autore siciliano, a cominciare da Rubè, uscito per i F.lli Treves nel 1921, cui seguiranno I vivi e i morti (’23), La tragedia di Mayerling (’25) e Tempesta nel nulla (’31), tutti stampati dall’editore di Segrate.

La parabola del Borgese narratore è piuttosto anomala, in quanto solo nel decennio 1921-1931 si manifestarono i sintomi di quella febbre creativa che lo portò a misurarsi con il romanzo e il racconto, dopo essersi speso in ambito ermeneutico e formativo (nel 1909 fu il più giovane professore di ruolo del Regno, divenendo docente di letteratura tedesca a Roma, e nel ’24 fu istituita per lui a Milano la prima cattedra di estetica). Non è un caso che l’attività di romanziere incontrasse non poche resistenze da parte di chi lo considerava un esegeta tout court: Pancrazi, per esempio, definì Rubè «il romanzo di un critico», e giudizi poco lusinghieri espressero Gargiulo, Cecchi, Bacchelli, Tilgher.

Borgese aveva raggiunto una discreta fama come critico militante, spendendosi con generosità dalle pagine dei più importanti giornali dell’epoca – dal Mattino alla Stampa al Corriere della Sera – intorno a eventi letterari di rilievo, non di rado contribuendo in maniera determinante a sostenere l’opera dei giovani scrittori. Il caso più evidente è quello di Moravia, il cui romanzo Gli indifferenti venne recensito per la prima volta sul Corriere nel ’29, anno della pubblicazione autofinanziata per Alpes (il testo di Borgese è confluito in La città assoluta e altri scritti, Mondadori, 1962). Ma non si possono passare sotto silenzio i nomi di Guido Piovene, che lo considerava il suo mentore, e Mario Soldati. D’altronde gli autori a cui Borgese si interessò furono molteplici, passando da Tozzi a Gozzano, da Moretti a Saba, da Alvaro a Palazzeschi. Non si dimentichino inoltre i numerosi saggi, fra cui la trilogia La vita e il libro (Bocca, 1910-’13) e Tempo di edificare (Treves, ’23). Va segnalata anche la curatela della «Biblioteca romantica» mondadoriana, tra il 1930 e il 1942.

Rubè, il suo capolavoro, si contrappone al frammentismo vociano e allo stilismo rondesco dominanti in quegli anni, configurandosi come un grandioso affresco, un Bildungsroman alla rovescia, dove gradualmente si consuma l’inettitudine inveterata del protagonista. Quest’ultimo si può considerare il degno antesignano di Zeno Cosini (La coscienza di Zeno vide la luce nel ’23 ma solo qualche anno più tardi, quando uscì la recensione di Montale e Joyce se ne interessò concretamente, il romanzo di Svevo cominciò a decollare) e del Michele dei succitati Indifferenti. L’antieroe Filippo Rubè sembra «affetto da dromomania irredimibile», come asserisce Ferlita, con cui tende a esorcizzare quel malessere interiore, quel senso di profondo smarrimento che si insinua tra l’ebbrezza del primigenio interventismo e l’insoddisfazione scaturita alla fine del conflitto. Lo spirito di rivolta oscilla, nel dopoguerra, fra il trasporto nei confronti dei disordini provocati dai fasci di combattimento e l’adesione alla causa socialista, creando una sorta di impasse psicologica che ha radici esistenziali più profonde e che connota tutta la vicenda del protagonista, indissolubilmente vocata al cupio dissolvi. È sintomatico che nessun rapporto dell’avvocato Filippo Rubè con i propri simili presupponga una catarsi, alla stregua di quello con l’amante Celestina Lambert, dagli esiti tragici, o con la stessa moglie. La stessa fine rocambolesca di Rubè, avvenuta durante un corteo socialista, viene paradossalmente investita di un senso eroico, da parte delle fazioni politiche avverse, che non le appartiene.

La naturale prosecuzione di questo testo è rappresentata dal romanzo I vivi e i morti che viene a formare con Rubè un dittico incentrato sull’inquietudine dei rispettivi protagonisti macerati dall’idea ossessiva, onnipresente, della morte. Qui è Eliseo Gaddi, professore e letterato, ad assistere impotente, dopo un violento alterco con il fratello, alla scomparsa improvvisa di quest’ultimo, con conseguenze che lo porteranno inevitabilmente alla rovina. Attilio Momigliano rilevò come i «romanzi, materialmente staccati, sono – in realtà – due volumi di una sola biografia ideale», riconducendo le figure rappresentate al loro alter ego, ovverosia al medesimo autore che, in questo caleidoscopio di suggestioni, riesce nel difficile intento di addentrarsi nei meandri psicologici dei personaggi mantenendo al contempo vivo l’interesse nei confronti delle alterne vicissitudini che li contraddistinguono.

Con La tragedia di Mayerling vi è un brusco cambio di registro, essendo il romanzo storico volto ad approfondire la vicenda dell’omicidio/suicidio di Rodolfo d’Asburgo, principe ereditario d’Austria-Ungheria, e della sua amante, la baronessa Mary Vétzera nel casino di caccia di Mayerling. Il ritrovamento dei corpi avvenne il 30 gennaio del 1899, quasi a preconizzare la fine imminente dell’Austria felix. Con un metodo d’investigazione estremamente moderno che sembra anticipare le meticolose ricostruzioni storiche di Sciascia, Borgese analizza tutti i documenti rintracciabili all’epoca, ricavandone un libro godibile, la cui stesura è coeva al dramma L’arciduca, incentrato sullo stesso evento. Chiude la prima sezione Tempesta nel nulla che, a causa della struttura poco compatibile con il romanzo, fa da trait d’union con la parte dedicata ai racconti. Si tratta della descrizione di un’ascesa tra le vette dell’Engadina con la figlia adolescente che sembra prefigurare, con esiti rapsodici, l’esilio dello scrittore che, dal 1931 in poi, insegnerà in varie università statunitensi (si veda il saggio American citizen. G.A. Borgese tra Berkeley e Chicago 1931-52 di Ilaria de Seta, Donzelli 2016). Borgese si rifiutò di aderire alle imposizioni del fascismo e fu uno dei pochi accademici che non prestarono giuramento di fedeltà al regime.

La sezione dei racconti si basa sul volume riepilogativo Il pellegrino appassionato (1933) che, con qualche esclusione, recupera le novelle apparse nelle raccolte mondadoriane La città sconosciuta (’25), Le belle (’27) e Il sole non è tramontato (’29). Si è provveduto qui a integrare i racconti espunti dall’autore. Secondo Piovene si tratta del «punto più alto» della produzione di Borgese. Precisa di rincalzo il curatore che la forma del racconto è «miracolosamente equilibrata tra l’intento “obiettivo” dello scavo psicologico e quello della trasfigurazione “evocatrice” e lirica».

Durante l’esilio americano Borgese si dedicherà ad approfondire tematiche di carattere geopolitico, dirigendo la rivista «Common Cause» e attivandosi per un comitato che si proponeva di formulare una costituzione mondiale. Nel 1952 venne candidato al Nobel per la pace. In un appunto ritrovato dal curatore, con il quale si è voluto suggellare l’opera, è scritto: «Il sole non è tramontato / 8 novembre 1933 / Northampton, New Ghiffa / HE TOLD HER STORIES TO DELIGHT HER EAR». Un rimando alla villetta posseduta a Ghiffa, sul Lago Maggiore, e al posto della parola FINE uno spunto degno di Sherezade: «Le raccontò storie per deliziarle l’orecchio».