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È dura la vita dei BookTuber, quelli che parlano di libri su YouTube e sperano, se non di camparci, almeno di tirar su i soldi sufficienti per pagare le bollette o qualche ben meritato spritz. Da alcuni anni se ne vedono anche in Italia (due nomi fra i tanti, Ilenia Zodiaco e Matteo Fumagalli: 68.000 e 104.000 iscritti ai rispettivi canali), ma è nella sfera anglofona che questa versione riveduta e aggiornata del vecchio critico letterario prospera.
Prospera? Non proprio, se crediamo a quanto racconta su Wired Daniel Greene, esperto di letteratura fantasy, che grazie ai video su YouTube si sostenta. In un trailer accattivante (https://www.youtube.com/watch?v=t3qHZ-QZFPE) Greene promette recensioni, interviste e breaking news sul fantasy, invitando i visitatori a iscriversi al suo canale video. Ma dei 202.000 che hanno risposto all’appello, pochi sanno quanta fatica ci sia dietro. E non solo perché Greene, che si definisce un workaholic, uno stakanovista, per anni ha pubblicato un video ogni giorno, sette giorni su sette, curandone nei dettagli la forma. Il vero problema con YouTube, ha confessato lui stesso, è adattarsi agli umori capricciosi dell’algoritmo, che lo costringono a bilanciare attentamente materiali interessanti ma poco popolari con titoli di impatto sicuro, che gli porteranno buoni volumi di traffico.
«Ogni settimana tra i 20 e i 30 autori che si autopubblicano mi cercano perché io legga i loro libri – ha spiegato Greene – e a me non dispiacerebbe farlo, eventualmente poi parlandone. Ma se pure ne segnalassi pochissimi, sarebbe comunque una percentuale notevole dei miei video e YouTube direbbe: ‘Ok, dei cinque video che Greene ha pubblicato questa settimana, tre trattano di sconosciuti e sarà un miracolo se arrivano a 10.000 visualizzazioni. Quindi lo retrocediamo’. E alla fine questo lavoro non l’avrei più».
Del potere palese e nascosto degli algoritmi scrive su The Walrus anche Russell Smith, romanziere e saggista, che nel 2019 ha chiuso la sua ventennale rubrica di attualità culturali per il quotidiano canadese Globe and Mail. Nessuno se n’è accorto, ammette lui stesso: «In effetti la mia rubrica esplorava questioni di estetica che di solito i giornali aborrono. Non mi sono addentrato quasi mai nelle grandi questioni morali su razza o genere, mentre ho cercato di attirare l’attenzione su controversie che non si prestavano a titoli da prima pagina, come la lingua usata da Al Jazeera a proposito di religione».
All’inizio la formula ha avuto successo, suscitando a volte polemiche accese, ma in seguito l’assenza della rubrica dall’app del Globe and Mail e la minore diffusione del quotidiano cartaceo hanno ridotto il numero dei lettori di Smith, mentre i capiredattori cominciavano a premere perché i temi trattati fossero più popolari: «Quella pressione – commenta Smith – era effetto del gigantesco grafico appeso ora in quasi tutte le redazioni, su cui si vedono in tempo reale gli articoli che suscitano maggiore interesse». Con un meccanismo ben descritto anche in un libro recente, Slow Journalism, di Daniele Nalbone e Alberto Puliafito (Fandango), a dettar legge oggi al Globe and Mail (e quasi ovunque) è il software analitico, con il risultato che «pochi pezzi salgono in vetta e gli altri si arrabattano come possono».
La conclusione è per forza di cose amara: «Gli algoritmi che ci dicono quali argomenti sono di tendenza non riflettono semplicemente le tendenze; possono aiutare a crearle. Escludendo ciò che è oscuro o difficile, si assicurano che non sarà mai popolare. Se a nessuno si dice mai che la musica elettronica o l’architettura postmoderna sono importanti, difficilmente saranno considerate tali. E il ruolo dei giornali ne esce ridotto».