L’arboricoltore e maestro bonsaista americano, di discendenza giapponese, John Naka diceva: «Il bonsai è una scultura lenta, la più lenta del mondo. Giorno dopo giorno, anno dopo anno, prende piede un delicato conflitto fra l’uomo, che ha in mente la propria idea di come il lavoro vada sviluppato, e la pianta che resiste, che segue la propria natura Una lenta, quotidiana scultura, fatta di costante attenzione, di completa dedizione… col passare del tempo non è più chiaro se sia più scolpita la pianta o l’uomo».

Il bonsai è un’ottima dimostrazione delle pulsioni contrastanti che coabitano nell’animo di un individuo: da una parte esiste e opera l’amore, il bisogno, in un certo modo, di accudire un pezzo della natura universale, un soggetto speciale, una parte del tutto che rappresenta e (in)radica l’idea stessa della cosidetta “natura”, dall’altro si esercita la tensione a voler dominare i processi naturali, quasi a voler diventare padroni del tempo, e magari ingegneri di quel misterioso e al fondo, insondabile, perpetuo meccanismo che unisce causa ed effetto. Anche nel più pacifico e poetico animo contemplativo queste due forze contrastanti si ritrovano a sferzare, poiché l’uomo deve nutrirsi, deve riscaldarsi, deve ricoprirsi e proteggersi. Curare e/o creare un bonsai è inoltre il modo che taluni individui hanno di curare la propria fisiologia, come se quell’albero fosse un’estensione, un simbolo, una riproduzione del proprio vivere. Capisco dunque coloro che adorano le misure, le dimensioni, le azioni drastiche che appartengono alla voce del verbo “accudire un bonsai”, ma capisco anche la posizione, non rara, di coloro che individuano nelle costrizioni dell’arte bonsaista una deliberata violenza dell’uomo sulla natura più inerte, e cosa esiste d’altronde, di più indifeso, di più esteticamente passivo, di un alberello tenuto sotto scacco, in un vaso di terracotta o porcellana, a cui è permesso di radicare in una manciata di terra, mutilandone stagione dopo stagione, le foglie e la chioma?

L’origine del coltivare paesaggi in miniatura di talune specie di piante ha radice in Cina, si risalgono i secoli, c’è chi testimonia ad opera di monaci buddisti che necessitavano di piante leggere da trasportare, piuttosto che come imitazione di talune conifere da alta montagna, comunque in un tempo antico che oscilla intorno al primo secolo a.C. Le importazioni in Corea e in Giappone hanno inizio nel sesto secolo d.C., tramite ambasciata, per poi condurre ad una coltivazione seriale a partire da XVII secolo. Il termine bon-sai è la traduzione dell’originale pén-jĭng (vassoio-paesaggio) e pén-zāi (vassoio-pianta).

Fra le diverse storie rimarchevoli che riguardano i bonsai esiste la “albero-grafia” di un pino sopravvissuto al bombardamento atomico del 6 agosto 1945 a Hiroshima, protagonista del racconto illustrato The Peace Tree from Hiroshima (L’albero della Pace da Hiroshima) di Sandra Moore, disegni di Kazumi Wilds, edito da Tuttle. La storia viene narrata dal punto di vista del pino, attualmente custodito al National Arboretum di Washington D.C. Nel 1976, in occasione del bicentenario dell’indipendenza dall’Inghilterra, il governo giapponese dona agli Stati Uniti cinquanta bonsai fra i quali un pino che l’autrice del volume chiama Miyajima, dal nome dell’isola dove era nato l’albero che Itaro Yamaki scelse e portò, circa quattro secoli orsono, nella propria abitazione. La famiglia in seguito si è trasferita a Hiroshima dove gli eredi l’hanno accudito fino alla terribile conclusione della Seconda guerra mondiale, quella che in Asia viene indicata come Guerra del Pacifico. Qui l’albero deve sopportare l’atroce destino di un mondo ridotto in cenere dalla prima bomba atomica mai sganciata su una popolazione, il 6 agosto 1945, ma si salva. Quando si diffonde la notizia del dono che il governo nipponico intende fare allora l’anziano proprietario, Masaru, decide che è proprio il suo vecchio bonsai che ha provato la tristezza della guerra e dell’odio a simboleggiare, ad “incortecciare” la possibilità di rinnovare l’amicizia fra i due paesi: «Tu sei più forte e più paziente e più saggio che mai», dice al pino bianco Masaru. Il dono volerà quindi nel cuore degli Stati Uniti dove verrà esibito all’alboreto della capitale dove viene indicato come Yamaki pine, il pino della famiglia Yamaki.

In Italia esistono diverse collezioni notevoli di esemplari secolari di bonsai, quali i musei di Crespi Bonsai a Parabiago (Milano) e il Franchi Bonsai Vivai a Pescia (Pistoia), inaugurati nei primi anni Novanta, il museo del Bonsai Club Marostica (Vicenza). In passato ho affrontato il pregiudizio che nutrivo nei riguardi dell’arte bonsaista, proprio andando in visita a Parabiago e visitando la collezione dei Crespi. In libri quali Manuale del perfetto cercatore d’alberi (Feltrinelli) e I giganti silenziosi (Bompiani) ho descritto la mia stupefazione di fronte a certi bonsai, ad esempio ad un larice di novant’anni che cresce in piena salute nei suoi pochi centimetri di altezza, mentre sono abituato a vedere svettare e radicare con ostinazione i suoi fratelli sulle cime delle Alpi, fra i 1700 e i 2100 metri, dove spesso ho accarezzato esemplari plurisecolari, le cortecce rossastre, le resine profumate, le chiome sparate, senza far troppo caso alle stime di età, 400-500-800 anni. Straordinaria è la presenza di un maxi-bonsai, un elaboratissimo Ficus microphilla stimato in mille anni, acquisito in Giappone dopo estenuanti contrattazioni assolutamente segrete. Nessuno in famiglia conosce il prezzo che Luigi Crespi ha in effetti sborsato per questo immenso dono fatto non soltanto alla propria famiglia, ma a chiunque ami la natura. Si tratta di uno dei bonsai più vecchi al mondo, nonché la creatura più annosa, fra i viventi, dell’intero territorio milanese, in competizione, per così dire, in Lombardia, soltanto con lo stanco larice della Valmalenco, in provincia di Sondrio, recentemente studiato e riconosciuto quale millenario, poiché nato nell’anno 1007 e resiliente a quota 2160 metri. Due capolavori del continente degli alberi, nonché figli della convivenza uomo-natura, che meritano di essere visitati e ringraziati.