Le dichiarazioni salomoniche del ministro degli Esteri Emma Bonino circa la vicenda dei due marò in India hanno riaperto le polemiche che hanno caratterizzato il caso Enrica Lexie sin dal 15 febbraio 2012, quando nelle acque del Kerala morivano Ajesh Binki e Valentine Jelastine, due pescatori probabilmente scambiati per pirati dai fucilieri del Nucleo militare di protezione a bordo della petroliera italiana.

Bonino, sulla sua pagina Facebook, riferendosi alle accuse di omicidio mosse contro Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, lunedì a spiegato che «[do action=”quote” autore=”Il ministro degli Esteri Emma Bonino”]Non è accertata la colpevolezza, e non è accertata l’innocenza. I processi servono a questo[/do]», di fatto fugando ogni dubbio circa la fiducia riposta nella giustizia indiana, ora che le indagini della polizia federale sembrano giunte al termine e il processo in India potrebbe finalmente aprirsi. La dichiarazione ha scatenato l’indignazione del fronte innocentista, con l’ex ministro Giulio Terzi sugli scudi a ribadire su Twitter l’adesione completa alla versione di Latorre e Girone, che da sempre si proclamano innocenti e che da oltre 600 giorni sono bloccati in India.
Analizzando il dipanarsi della vicenda in questo anno e mezzo ci sono alcuni elementi poco chiari che aprono scenari preoccupanti per le nostre istituzioni e per almeno quattro dei sei marò all’epoca dei fatti a bordo dell’Enrica Lexie. La petroliera, fermata dalla guardia costiera indiana, attracca al porto di Kochi il 15 febbraio; seguono quattro giorni di trattative informali tra le autorità indiane e quelle italiane che si concludono con l’arresto di Latorre e Girone il 19 febbraio.

Perché proprio loro due, i sottufficiali più alti in grado a bordo? Oggi questa domanda appare particolarmente legittima, considerando due episodi che in un anno e mezzo hanno stravolto la strategia difensiva dell’Italia. Il primo: la pubblicazione su Repubblica, alla fine del marzo scorso, del rapporto redatto dall’ammiraglio Piroli, dove si indica testualmente che gli esami balistici condotti dalla scientifica indiana sostengono che i due fucili compatibili coi proiettili rinvenuti nei corpi delle vittime non sarebbero contrassegnati con le matricole di Latorre e Girone, bensì con quelle di altri due fucilieri, Renato Voglino e Massimiliano Andronico.
A questo dettaglio dobbiamo aggiungere l’improvvisa reticenza italiana a collaborare con gli inquirenti indiani ora che per completare le indagini mancano solo le deposizioni dei quattro marò attualmente in Italia. Alla richiesta di presentarsi per l’interrogatorio in India – al pari degli altri testimoni civili, dal capitano della Lexie a tutto il resto dell’equipaggio – le autorità italiane sono state irremovibili nel negare la presenza fisica degli altri quattro marò, avanzando opzioni alternative di interrogatorio in teleconferenza, via email o ospitando gli inquirenti indiani sul suolo italiano: tutte opzioni giudicate non percorribili dall’India, che ha cercato di far valere un documento firmato dall’Italia in cui Roma si impegnava davanti alla Corte suprema nel rendere disponibili i testimoni per ulteriori indagini. Un documento che ora, secondo il sottosegretario Staffan De Mistura, è superato poiché dal momento della firma «è passata molta acqua sotto i ponti».

Una giustificazione piuttosto fumosa – in controtendenza con la precisione e professionalità di De Mistura nel gestire l’intero caso – che l’India non ha intenzione di accogliere, decisa a voler sentire i marò in territorio indiano. Segno che la deposizione dei quattro fucilieri è ritenuta fondamentale per impedire che il destino di Latorre e Girone, parafrasando la stampa indiana, «possa essere messo a repentaglio» dalla mancata collaborazione tra le parti.
Chiarire i punti controversi circa l’arresto di Latorre e Girone e le matricole dei fucili incriminati sgombererebbe il campo dal sospetto che la ricostruzione fino ad ora riconosciuta dalle autorità italiane serbi invece qualche drastico aggiustamento.