Il cielo grigio di Roma minaccia un temporale che non arriva, nell’aula del senato la crisi a cui nessuno aveva creduto dura un paio di minuti. Il tempo che impiega Renzi per spiegare che, anche condividendole, non voterà le mozioni di sfiducia al ministro Bonafede presentate dalle opposizioni. Perché «il presidente Conte ha detto chiaramente che lui ne avrebbe tratto le conseguenze politiche. E quando parla il presidente del Consiglio si rispetta istituzionalmente e si ascolta politicamente».

Fosse così, sarebbe la prima volta che Renzi ascolta sul serio Conte. Ammesso che Conte abbia mai annunciato «chiaramente» le sue dimissioni in caso di sfiducia a Bonafede. In pubblico non lo ha mai fatto. Può averlo fatto in privato martedì ricevendo Maria Elena Boschi, nell’incontro dedicato a trattare su piani diversi dalla giustizia come si vedrà più avanti. Del resto, che il governo sarebbe andato in crisi se una parte della maggioranza avesse sfiduciato il ministro era talmente ovvio che Renzi non può averlo scoperto ieri. Di certo lo sapeva anche quando la mozione di sfiducia voleva presentarla lui.

AL TERMINE delle lunghe procedure di voto imposte dalle regole di sicurezza sanitaria – i senatori entrano in aula un po’ alla volta – sono bocciate sia la mozione del centrodestra che quella con prima firmataria Emma Bonino. A sorpresa risulta più pericolosa per il governo la prima, nella quale i 17 senatori di Italia viva si dimostrano decisivi. Numeri più bassi per la mozione «garantista», ma Renzi si impegna a spiegare che «se avessimo votato a favore di questa mozione, i senatori di Fratelli d’Italia ci avrebbero seguito dunque siamo stati decisivi anche in questo secondo caso». Che il governo stia in piedi grazie a Italia viva serve al senatore di Rignano per rivendicare le contropartite. Che non riguardano la giustizia, lo dice chiaramente: «Abbiamo molto apprezzato la decisione sull’Irap, l’appoggio alla ministra Bellanova, l’accelerazione sulle riaperture». Poi ci sono le promesse a Iv per la girandola delle presidenze delle commissioni parlamentari.

Sulla giustizia bisogna accontentarsi delle sfumature nel discorso di Bonafede, accompagnato in aula dal presidente del Consiglio e dai capi delegazione Franceschini, Speranza, Bellanova e da Di Maio a sottolineare la solennità del passaggio. Il ministro riconosce adesso il suo dovere di fare «sintesi» tra «le differenze culturali e politiche» di «un governo di coalizione», cosa che fin qui non ha fatto. Anche se difende tutto il suo operato «in questi due anni», il primo dei quali trascorso sotto braccio a Salvini. Concede, il ministro, l’urgenza della riforma del processo penale (il testo del disegno di legge delega è alla camera) «per avere tempi certi». E che «la ragionevole durata del processo è un diritto» così come «il diritto alla difesa». Accoglie, almeno nelle intenzioni, la spinta che arriva dal Pd perché si stringa anche sulla riforma del Csm: non solo un nuovo sistema di voto ma anche nuove regole per la disciplinare e le valutazioni professionali dei magistrati. E sulla prescrizione «sarà importante istituire una commissione ministeriale di approfondimento e monitoraggio dei tempi». Renzi la sbandiera come un suo successo e già si intesta la presenza a quel tavolo del presidente dell’Unione camere penali Caiazza (assai critico con il ministro), ma l’avvocato in virtù del suo ruolo ci sarebbe stato comunque.

IL PD SOSTIENE infatti che nessuna di questa promesse è una novità «A febbraio, durante i confronti sulla riforma del processo penale, avevamo condiviso la necessità di introdurre istituti giuridici in grado di scongiurare il rischio di una durata illimitata del processo», spiega il sottosegretario alla giustizia Andrea Giorgis. E aggiunge che «avevamo anche previsto l’istituzione di una commissione ministeriale per monitorare gli effetti dell’interruzione della prescrizione dopo il primo grado. Una riforma, approvata dai 5 Stelle con la Lega, che non abbiamo mai considerato un punto di arrivo. Abbiamo sempre detto che il sistema così non è in equilibrio». Così la senatrice dem Rossomando nella dichiarazione di voto spinge sulla richiesta di «discontinuità». Ma deve anche accontentarsi, per esempio quando dichiara di «apprezzare il suo richiamo, ministro, alla normativa degli anni Settanta sull’ordinamento penitenziario». In realtà Bonafede aveva fatto il contrario, dando alla storica riforma del 1975 la colpa delle scarcerazioni dei boss mafiosi. Sul carcere la ricetta del ministro non sembra cambiata: per combattere il sovraffollamento assicura che costruirà nuove prigioni «per 5mila posti». Sulle manette non è certo Renzi a sfidarlo, che anzi conclude la sua professione di garantismo attaccandosi al petto la medaglia del vendicatore: quando guidava lui «Provenzano e Riina sono morti in carcere, quello era il loro posto».