Il tiro al piccione entra nel vivo e il centrodestra ritrova la verve pre-Covid, la poltrona del Guardasigilli traballa ma il Movimento 5 Stelle tira fuori l’artiglieria nel tentativo di salvare il suo ministro. L’«antimafia» finisce sullo sfondo.

Nel giorno in cui il responsabile della Giustizia Alfonso Bonafede durante il question time al Senato si difende dalle accuse del consigliere del Csm Nino Di Matteo e risponde sulle “scarcerazioni” dei boss mafiosi delle ultime settimane, ripetendo sostanzialmente quanto già affermato il giorno prima a Montecitorio salvo qualche correzione di tiro, Forza Italia Lega e FdI si ritrovano uniti su una mozione di sfiducia allo stesso Guardasigilli, depositata al Senato, che potrebbe essere messa ai voti già mercoledì 13 maggio, quando Bonafede si recherà in Parlamento per una informativa sulle carceri. Salvini spera di poter convincere Italia viva (che ieri nell’incontro con Conte ha messo sul tavolo della trattativa anche il nodo Giustizia). Mentre, nella speranza di poter aprire un varco pure nella sottopancia irrequieta del M5S, Giorgia Meloni lancia una petizione on line per le dimissioni del ministro.

La mozione di sfiducia ricostruisce lo scontro Bonafede-Di Matteo, soffermandosi su alcuni particolari come quello dei due ruoli – capo del Dap e direttore generale degli Affari penali – offerti in alternativa all’ex pm palermitano due anni fa. «Il ministro – si afferma – non può, per legge, disporre direttamente di questo secondo ruolo, essendo non solo già occupato al momento della proposta a Di Matteo, ma anche un incarico contrattuale soggetto a concorso obbligatorio». Ma soprattutto, il centrodestra cerca di inculcare il dubbio, già evocato da Di Matteo, che Bonafede abbia agito senza contrastare gli interessi delle mafie o addirittura cedendo ai ricatti della «regia occulta» che – scrivono – manovrava le rivolte dei detenuti di inizio marzo «finalizzate ad alimentare la discussione su indulti, amnistie e provvedimenti che avrebbero potuto alleggerire il carcere anche per gli uomini della criminalità organizzata».

E a questo proposito spunta fuori il fitto carteggio intercorso nelle ultime settimane, prima del j’accuse televisivo di Di Matteo, tra il presidente della Commissione nazionale antimafia Nicola Morra e l’allora capo del Dap Basentini (ieri ufficialmente sostituito dal consigliere Csm Dino Petralia) riguardo la scarcerazione dei 376 detenuti trasferiti ai domiciliari per l’emergenza Covid e il sovraffollamento. Tra loro, si noti bene, solo tre boss al 41 bis, di cui uno, Michele Zagaria, ha ottenuto per i prossimi 5 mesi di potersi curare un carcinoma all’ospedale di Brescia. Morra, nelle mail inviate al Dap, lamenta le inadempienze di Basentini nel trasmettere le informazioni richieste.

Ieri però la nuova macchina del Dap si è messa al lavoro e al servizio di Bonafede: il neo vicecapo Roberto Tartaglia ha inviato al ministro una relazione contenente la profilazione di 456 detenuti accusati di associazione mafiosa, ristretti nei reparti di alta sicurezza, che hanno presentato istanza di scarcerazione per il Covid. Di questi, «225 sono detenuti definitivi» e «231 sono detenuti in attesa di primo giudizio, imputati, appellanti e ricorrenti (dunque innocenti fino a prova contraria, ndr)». Su questa relazione il Guardasigilli baserà parte della sua informativa al parlamento di mercoledì prossimo, quando si attende dal centrodestra un nuovo allarme «liberi tutti». Intanto Bonafede – attorno al quale ieri si è alzato il cordone sanitario dei 5 Stelle, con un lungo post del capo politico Vito Crimi e un’arringa calorosa sul blog di movimento – si è difeso anche in Senato dove ha ricordato che le norme del Cura Italia escludono l’accesso ai domiciliari per i mafiosi.

«È totalmente infondato», ha detto, ogni collegamento tra i fatti di cui parla Di Matteo e le scarcerazioni dei boss, «frutto di decisioni di magistrati che hanno applicato leggi previgenti che nessuno aveva mai modificato fino al decreto legge approvato la scorsa settimana da questo governo». E, pur confermando di avere «in cantiere» un decreto legge «che permetterà al magistrato di sorveglianza la rivalutazione delle misure già concesse» prima della fase 2, il ministro si corregge in parte: «Non c’è alcun governo che possa imporre o anche influenzare la decisione dei giudici. La Costituzione non lascia spazio all’ipotesi in cui la circolare di un direttore generale, di un dipartimento, di un ministero possa dettare la decisione ad un magistrato. Questo è l’abc della Costituzione. Le scarcerazioni sono decisioni giurisdizionali, di natura discrezionale, impugnabili secondo la relativa disciplina».