Dal Kashmir all’Afghanistan continua l’escalation di tensione in un’area che fa presagire nuovi conflitti e la difficoltà di risolvere quelli in corso. E mentre il premier pachistano visita l’Azad Kashmir e il Pakistan mette in guardia su un possibile imminente attacco indiano, a Kabul ci si chiede che cosa ha partorito l’ottavo round di colloqui a Doha tra americani e talebani.

Ieri il primo ministro pachistano Imran Khan si è recato a Muzzafarabad, capitale dell’Azad Jammu and Kashmir (Ajk), l’area controllata da Islamabad: un lembo di terra di 13 mila chilometri quadrati con meno di 5 milioni di abitanti ma che rappresenta una ferita profonda nel sentimento nazionale pachistano, già costata due guerre dichiarate, una eufemisticamente chiamata “incidente” e un quarto possibile conflitto fortunatamente rientrato a febbraio dopo reciproci raid aerei. Mentre al Consiglio di sicurezza giace da sabato una richiesta formale del Pakistan perché l’Onu affronti la questione (ora nelle mani del presidente di turno, il polacco Jacek Czaputowicz), Imran Khan- accompagnato dal premier dell’Ajk, Raja Farooq Haider – si è rivolto al parlamento del territorio «liberato» abbandonando i toni diplomatici con cui finora ha affrontato la decisione indiana di ritirare al Kashmir lo statuto speciale di cui il territorio godeva e che, oltre a consentire una larga autonomia, vietava ai non residenti l’acquisto di beni e terreni e l’accesso a cariche pubbliche.

«Questo – ha detto rivolgendosi al suo omologo indiano, Modi – è il messaggio per te: ogni tuo mattone sarà contrastato da una nostra pietra. L’esercito è pronto e l’intera nazione combatterà… e quando i musulmani hanno combattuto per la loro libertà una guerra aggressiva contro l’islam, hanno sconfitto i più grandi eserciti. Risponderemo a qualsiasi cosa tu faccia… È tempo che tu riceva una lezione».

Nel giorno dell’indipendenza nazionale, Imran Khan reitera quindi le accuse del Pakistan a un’India che utilizza un’ideologia «nazista» per perseguire in Kashmir una pulizia etnica anti musulmana e paragona l’abrogazione dell’articolo 370 della Costituzione indiana a una sorta di «soluzione finale». Parole grosse, mentre i suoi consiglieri per la sicurezza accusano Delhi di preparare nuovi raid aerei e mentre i suoi inviati a Kabul mettono in guardia sull’influenza nefasta che il dossier Kashmir può avere sui negoziati di Doha tra i talebani e Zalmay Khalilzad, l’inviato del presidente Trump.

Sul fronte afgano pesa intanto l’incertezza sull’esito dei colloqui terminati lunedì con l’ottavo e ultimo giro negoziale su cui le due delegazioni hanno fatto trapelare poco. Un silenzio che si può interpretare in due modi: come un’inaspettata battuta d’arresto oppure come l’ultima valutazione prima della firma vera e propria. Così hanno fatto capire alcuni membri dell’Ufficio politico dei talebani: entro un paio di giorni la leadership politica dovrebbe ufficializzare la propria posizione e, a giudicare dall’ultimo comunicato del leader supremo, Haibatullah Akhundzada, l’accordo non dovrebbe essere lontano: dopo qualche stilettata rituale agli americani, Akhundzada infatti rivendica «l’estrema serietà» con cui i talebani affrontano il negoziato. E promette sviluppo, economia e cultura, confermando la disponibilità a discutere «sul futuro dell’Afghanistan con i partiti politici e gli individui più influenti». È una delle richieste che Khalilzad avanza da mesi: il dialogo intra-afgano.

Proprio ieri uno dei suoi vice-presidenti, Sarwar Danesh, ha annunciato che le discussioni con i talebani inizieranno a metà ottobre, dopo le elezioni presidenziali del 28 settembre. Khalilzad privatamente ha più volte suggerito al presidente Ashraf Ghani, che cerca un secondo mandato, di rimandare la consultazione, ma Ghani ha tenuto il punto. Che abbia ragione alle urne non è scontato, ma ha senz’altro ragione quando dice che «le decisioni dei prossimi mesi determineranno il futuro per secoli».

Sta proprio qui una delle difficoltà del negoziato. Gli americani devono portare a casa un accordo che soddisfi le esigenze elettorali di Trump (novembre 2020) e la richiesta dei talebani di non allungare troppo i tempi del ritiro delle truppe ma conceda tempo sufficiente agli afgani per discutere come condividere il potere e quale architettura politico-istituzionale adottare. Il ritiro, dunque, va legato a colloqui intra-afgani, molto complicati. Da una parte c’è Ghani e quanti difendono l’attuale repubblica, dall’altra i talebani che insistono su un governo «veramente islamico». Potrebbe uscirne un ibrido, o una sorta di Consiglio dei guardiani con potere di veto sulle decisioni del legislativo o dell’esecutivo. I talebani puntano al 19 agosto, centesimo anniversario dell’indipendenza dai britannici, per annunciare l’accordo e rivendicarlo come una «seconda liberazione».