Sul fronte politico iracheno proseguono serrate le consultazioni per la formazione del nuovo governo nazionale, figlio dell’allontanamento forzato dell’ex premier Maliki e la sua sostituzione con il compagno di partito Al Abadi. Ieri le fazioni curde hanno fatto sapere che prenderanno parte ai negoziati per la creazione della nuova coalizione.

Sul campo, coperti dalle bombe sganciate dai jet militari statunitensi, ieri i peshmerga hanno riconquistato parte della diga di Mosul, il più grande impianto del paese, strappando al controllo dell’Isil. A darne notizia è il generale Qassim al-Moussawi, portavoce dell’esercito iracheno, che ha aggiunto che gli scontri sono tuttora in corso: il lato meridionale è ancora conteso tra forze militari irachene e Isil, ma i peshmerga hanno rioccupato la vicina città di Tel Kasouf. Obiettivo riprendere il controllo totale della diga, occupata poco meno di due settimane fa dai jihadisti. Costruita lungo il fiume Tigri, fornisce elettricità e acqua a tutto il nord del paese. La sua caduta avrebbe potuto avere significativi effetti sulla capitale: un’inondazione volutamente provocata avrebbe travolto anche Baghdad, città sulle rive dello stesso fiume.

Contro la versione governativa si è scagliato l’Isil che ha negato la perdita dell’impianto («mera propaganda di guerra»), sopra il quale, secondo al-Moussawi, è già stata issata la bandiera irachena. E mentre i peshmerga precisano di non essere potuti restare dentro la diga a causa di un enorme quantità di esplosivi lasciati dai jihadisti (170 quelli individuati), conferma giunge anche dal Ministero della Difesa: le forze di sicurezza «hanno liberato una vasta parte della diga di Mosul» con il sostegno dei bombardamenti statunitensi.

Ad intervenire è anche la Gran Bretagna, che segue a ruota come accadde nel 2003: ieri il segretario della Difesa ha annunciato l’invio di 150 soldati delle unità speciali per fini umanitari («Nessun ruolo militare», precisa il premier Cameron), mentre gli aerei da guerra sorvolano il paese per scattare foto delle postazioni jihadiste e mille marines sono stati dispiegati nella vicina Giordania. Contributo anche da parte dell’Unione Europea che ieri annunciava l’invio di 17 milioni di euro in aiuti umanitari agli sfollati, ormai oltre un milione e mezzo.

I primi effetti delle bombe Usa si vedono già: nei giorni scorsi gran parte dei profughi yazidi intrappolati sul monte Sinjar sono fuggiti dopo l’apertura di un corridoio nella valle, mentre il morale tra le file curde – nelle scorse settimane quasi a secco di armi e munizioni – è salito. L’indietreggiamento a cui erano stati costretti i miliziani di Irbil si è fermato e ora è partita la controffensiva. Un capovolgimento di fronti: fino a metà luglio, i jihadisti avevano evitato l’avanzata verso nord, preferendo radicarsi nelle province occidentali e orientali (Ninawa, Anbar, Salah-a-Din e Diyala) e minacciare la marcia su Baghdad. A monte, un presunto accordo con il Kurdistan iracheno, che aveva approfittato della crisi del potere centrale per allargare i propri confini e conquistare città chiave, come Kirkuk.

Le ultime settimane sono state invece teatro del tentativo di offensiva dell’Isil contro i curdi, tentativo a cui gli Stati Uniti hanno subito reagito. L’intervento Usa è cominciato da una settimana (50 gli attacchi finora compiuti), accompagnato alla consegna di armi direttamente in mano alla regione autonoma del Kurdistan, bypassando Baghdad. Eppure il precedente governo Maliki aveva espressamente chiesto, fin dall’inizio del’offensiva dell’Isil, un intervento da parte della Casa Bianca. L’amministrazione Obama, dopo aver posto come ufficiosa precondizione la formazione di un governo di unità nazionale – preferibilmente guidato da una figura politica più conciliatoria – ha optato per i jet solo dietro richiesta degli alleati curdi.

Una simile azione fa storcere il naso ad alcuni leader sciiti e sunniti che parlano di doppio standard e si chiedono perché Washington sia corsa in aiuto dei curdi dopo la fuga di yazidi e cristiani e non sia intervenuta prima per fermare le violenze nelle province a maggioranza sunnita nelle mani brutali dell’Isil. Ovvero, perché Obama non bombarda i jihadisti anche a Fallujah, Al Qaim, Ramadi, Baiji e Tikrit?

Il nazionalismo e l’Islam moderato dei curdi, dalla Siria all’Iraq fino alla Turchia, sono naturali alleati per gli Stati Uniti nella regione e contro l’Isil. L’impegno dei miliziani curdi iracheni, siriani e turchi contro i jihadisti è volto all’ottenimento del loro obiettivo finale: la difesa dell’unica entità curda internazionalmente riconosciuta – la regione autonoma del Kurdistan iracheno. Questo spinge i curdi della Turchia ad inviare uomini a protezione di Kirkuk e quelli in Siria a difendere la minoranza yazidi a scappare dalle violenze qaediste.

L’azione di sostegno statunitense viene vista come la possibile chiave di volta di una futura indipendenza. Da parte sua, il partito dell’ex presidente iracheno Barzani, il KRG, considera l’alleanza con Washington una colonna portante della propria politica estera e interna. L’obiettivo è chiaro: utilizzare la diretta cooperazione militare tra peshmerga e Stati Uniti per fare future pressioni sul governo di Baghdad e ottenere quanto richiesto da anni: maggiore autonomia, soprattutto nel terreno strategico delle risorse petrolifere.