Bombe per far saltare l’accordo voluto dall’esercito libanese, approvato da Damasco e mediato dal movimento sciita Hezbollah, per trasferire alcune centinaia di jihadisti e le loro famiglie dalla regione siriana del Qalamoun e dalle località libanesi di al Qaa e Ras Baalbek, a Deir Ezzor, l’ultimo bastione del Califfato in Siria, al confine con l’Iraq. Le hanno sganciate ieri gli aerei della Coalizione anti-Isis a guida Usa per bloccare i bus con a bordo i miliziani. «Per impedire al convoglio di muoversi verso Est, abbiamo colpito una strada e distrutto un piccolo ponte», ha comunicato il portavoce della Coalizione Usa. Poi si è appreso che i raid hanno colpito un convoglio che andava ad accogliere gli evacuati. Poco prima, Brett McGurk, l’inviato speciale di Washington per la lotta all’Isis, aveva scritto su Twitter che «i terroristi irremovibili dovrebbero essere uccisi sul campo di battaglia e non trasportati a bordo di autobus per tutta la Siria verso il confine iracheno senza il consenso dell’Iraq». McGurk piuttosto dovrebbe ricordare che i terroristi che hanno insaguinato Siria e Iraq si sono armati grazie anche al programma americano di addestramento (con centinaia di milioni di dollari) dei “ribelli siriani” che le armi ricevute da Washington le hanno spesso vendute o cedute a qaedisti e jihadisti.

L’Amministrazione Trump ha deciso di cavalcare l’onda della protesta a voce alta di Baghdad contro il trasferimento degli uomini del Califfato a Deir Ezzor. L’intento è quello di seminare discordia nel blocco filo-Iran e mettere sotto pressione Hezbollah, bersaglio sempre più frequente degli attacchi del presidente Usa e dei suoi collaboratori. Non sono servite le giustificazioni date dal governo e dai comandi militari di Beirut e dal movimento sciita, che hanno spiegato come l’accordo di tregua con l’Isis si sia reso necessario per ritrovare e riportare alle famiglie i resti di nove soldati libanesi sequestrati ed uccisi dai jihadisti. La reazione irachena all’intesa è stata veemente. Alla protesta del premier Haider al Abadi – «Onestamente, siamo infelici e lo consideriamo non corretto e un insulto alla popolazione (irachena)…Non deve esserci alcuna possibilità per Daesh (Isis) di respirare», ha detto – si è unita ieri quella del presidente del Parlamento iracheno Salim al Jubouri. «L’Iraq non dovrebbe pagare il prezzo per accordi che influenzano la sua sicurezza e sovranità» ha detto. Secondo Mohamed al Karbouli, capo della commissione per la difesa e la sicurezza del parlamento di Baghdad, alcuni dei jihadisti portati a Deir Ezzor in precedenza sarebbero poi passati nella provincia irachena di Anbar. «L’area tra Boukamal in Siria e Sakra in Iraq è aperta e fuori controllo. Quell’intesa è stata un grave errore», ha detto al Karbouli citato da Alsumaria News.

La rabbia irachena è comprensibile ma fino ad un certo punto. Se è vero che 300, altri dicono 600, miliziani dello Stato islamico in Siria si avvicineranno alla frontiera con l’Iraq grazie all’accordo raggiunto con la mediazione di Hezbollah, allo stesso tempo non si può fare a meno di notare che quella frontiera nelle mani dell’Isis da anni e i jihadisti si muovono più o meno liberamente tra Deir Ezzor e la provincia dell’Anbar. La “rabbia” di Baghdad ha avuto riflessi immediati in Libano dove le forze politiche che fanno capo al fronte filo-occidentale “14 marzo” hanno subito riacceso il dibattito sul ruolo di Hezbollah, descritto come uno “Stato nello Stato” e non come una “forza complementare” all’esercito nazionale, importante per il successo delle operazioni militari lanciate per scacciare i jihadisti sulla frontiera tra Libano e Siria di cui aveva parlato in diverse occasioni il capo dello stato Michel Aoun.

Sullo sfondo c’è Israele, molto interessato alle accuse che una parte del Libano rivolge a Hezbollah ora che il movimento sciita sembrava aver recuperato i consensi perduti in patria per aver scelto di andare a combattere in Siria dalla parte del presidente siriano Bashar Assad. Ieri il quotidiano Israel HaYom vicino al governo Netanyahu, citando autorevoli fonti militari, ha scritto, con evidente disappunto, che nel giro di un anno il presidente siriano Bashar Assad recupererà il controllo su tutto il Paese, grazie anche a Hezbollah.