Bombe e rappresaglie, così vince l’Isis
Iraq/Siria Dopo i tre attacchi dello Stato Islamico contro gli sciiti a Baghdad e Diyala, milizie sciite si vendicano sulla comunità sunnita. Nella città siriana di Madaya arrivano gli aiuti, ma gli accordi locali non funzionano. E Cameron ammette: «Le opposizioni moderate sono poche, costretti a dialogare con gli islamisti»
Iraq/Siria Dopo i tre attacchi dello Stato Islamico contro gli sciiti a Baghdad e Diyala, milizie sciite si vendicano sulla comunità sunnita. Nella città siriana di Madaya arrivano gli aiuti, ma gli accordi locali non funzionano. E Cameron ammette: «Le opposizioni moderate sono poche, costretti a dialogare con gli islamisti»
Sarebbe arrivato dalla Siria il kamikaze di Istanbul, fatto che aiuterà Ankara a chiudere la porta ai rifugiati e a inasprire le politiche incendiarie nei confronti del vicino. Era un saudita membro dell’Isis, organizzazione che per anni ha attraversato senza problemi un confine che ora genera il panico nel paese.
L’attacco giunge a meno di due settimane dal negoziato siriano, imminente eppure fumoso. Mentre il presidente russo Putin ieri in un’intervista ventilava la possibilità di garantire asilo politico al presidente Assad se necessario, domenica Damasco ha ribadito l’intenzione a dialogare, chiedendo di visionare prima la lista delle opposizioni che voleranno a Ginevra. Una lista che ha generato screzi nel composito fronte del “dialogo” e che ieri, di fronte ai parlamentari britannici, ha costretto il premier Cameron ad ammettere che non tutti sono gruppi affidabili: «Non ci sono abbastanza combattenti moderati. Sono tutti impeccabili democratici? No, alcuni sono islamisti e alcuni estremisti», ha detto aggiungendo però di avere poca scelta. Tra Assad e opposizioni divise, deboli o pericolose, Londra sceglie le seconde.
A rompere è però proprio la Coalizione Nazionale: Riad Hijab, capo negoziatore, ha accusato Mosca di bombardare scuole e bambini e di rendere così impossibile il negoziato. Una minaccia sventolata ormai da tempo che spiega l’inefficacia degli accordi locali.
È il caso di Madaya, affamata dopo la tregua siglata a settembre su Zabadani tra governo e opposizioni (al-Nusra, Ahrar al-Sham e Esercito Libero). Lunedì, dopo mesi di oblio, i primi aiuti sono entrati nella città al confine con il Libano, a bordo di 44 camion. Ad attenderli in strada c’erano migliaia di persone, disperate. Il giorno prima erano stati registrati altri 5 decessi per denutrizione (28 dal primo dicembre), altri civili morti di fame a poche ore dall’ingresso di cibo necessario alla sopravvivenza.
Nelle stesse ore, riportava l’Onu, circa 400 persone venivano evacuate d’urgenza dalla città per ricevere cure mediche, mentre 21 camion raggiungevano i villaggi sciiti di Fuaa e Kafraya, anch’essi assediati all’interno dagli islamisti di al-Nusra e fuori dalle truppe governative.
In Iraq massacri e rappresaglie
Di nuovo Baghdad e i suoi i quartieri sciiti nel mirino del “califfato”, che da ovest si spinge con sempre maggiore frequenza verso oriente. Lunedì sera due attacchi simultanei hanno colpito la capitale, uccidendo 29 persone. Poco dopo toccava alla vicina provincia di Diyala dove un terzo attentato ha ammazzato 20 iracheni.
A Baghdad nel mirino dei kamikaze sono finiti un cafè e il centro commerciale al-Jawhara nel quartiere sciita di al-Jadida; nella città di Muqdadiya, a Diyala, un cafè frequentato soprattutto da giovani. Stavolta nella capitale non si è trattato di un’autobomba o di un attentatore solitario, ma di un attacco coordinato di almeno quattro miliziani. Hanno sparato sulla folla, preso ostaggi e fatto esplodere un’auto, dimostrando un’evoluzione della strategia militare islamista che sa arrivare al cuore del paese e muoversi nelle pieghe della sicurezza irachena.
Ieri il premier al-Abadi ha fatto visita al centro commerciale luogo dell’attacco, camminato tra i detriti e promesso una reazione, definendo il triplice attacco il segno della disperazione dell’Isis per la perdita di Ramadi. Ma una reazione è necessaria soprattutto dopo le notizie che ieri arrivavano da Baghdad e Diyala: sette moschee e alcuni negozi di proprietà di iracheni sunniti sono stati dati alle fiamme, pare da milizie sciite che avrebbero – secondo fonti locali – anche giustiziato dei sospetti nelle proprie case. Un atto che preoccupa enormemente un governo che, nonostante i numerosi ostacoli esterni e interni, tenta di ricucire le divisioni settarie tra etnie e religioni.
La strategia di riunificazione nazionale minaccia molti, sia in Occidente dove le cancellerie non nascondono il favore per una soluzione federale, sia lo Stato Islamico che gioca sui sentimenti di discriminazione della comunità sunnita. E le reazioni sono cristalline: lunedì nella provincia di Ninawa gli islamisti hanno giustiziato 85 poliziotti, mentre ieri un kamikaze ha attaccato un checkpoint a nord di Baghdad, uccidendo almeno quattro ufficiali.
Nelle stesse ore un raid della coalizione colpiva un magazzino dello Stato Islamico a Mosul, dove sembra fosse custodito denaro per un valore di milioni di dollari provenienti dai traffici illeciti del “califfato”. Secondo la Cnn, sarebbero rimasti uccisi anche 5 o 7 civili.
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