Un incontro con Christian Boltanski (Parigi 1944, vive a Malakoff) nel giardino dell’Hotel de Russie, in occasione della nuova tappa di Take Me (I’m yours) all’Accademia di Francia a Roma – Villa Medici (fino al 15 agosto). Una mostra collettiva e partecipativa, voluta dalla direttrice Muriel Mayette-Holtz, di cui l’artista è co-curatore insieme a Hans Ulrich Obrist (la prima edizione per la Serpentine Gallery di Londra risale al 1995) e Chiara Parisi, che riunisce le opere di 89 artisti internazionali, tra cui lo stesso Boltanski con l’installazione Dispersion, Gianfranco Baruchello,  Gilbert & George, Felix Gonzalez-Torres, Annette Messager, Yoko Ono, Luigi Ontani, Cesare Pietroiusti, Daniel Spoerri, Francesco Vezzoli e Lawrence Weiner con gli artisti in residenza all’Accademia di Francia. “Ci sono tante storie di maestri zen che pongono una domanda che porta ad un’altra domanda. Penso che anche il mio lavoro sia sempre stato quello di porre domande, ma soprattutto di non rispondere mai.” – afferma l’artista concettuale – “La vita è un po’ come essere di fronte ad una porta chiusa. Tutti gli umani della terra cercano la chiave per aprire quella serratura. Ognuno ha la propria idea della chiave, ma secondo me non c’è una chiave giusta. Essere umani è cercare la chiave.”

La sua poetica di “minimalista sentimentale” è un attraversamento di tematiche esistenziali che vanno dalla memoria all’inconscio, dalla morte all’oblio, dalla paura al caso, dalla fragilità al senso di colpa. In che modo l’oggetto trovato – in particolare l’indumento – diventa l’anello di congiunzione nel passaggio dalla sfera individuale a quella universale?

Chiunque guardi l’opera deve riconoscersi nell’opera stessa, quindi si procede andando dal personale all’universale. Ogni artista parla con il proprio linguaggio, ma ogni spettatore deve poter dire questo è il linguaggio che mi appartiene. C’è sempre un miscuglio di ciò che si conosce, se stessi e gli altri.

In particolare la fotografia (che poi è la scrittura con la luce, altra componente decisiva nelle sue opere, concepita non tanto per illuminare quanto per oscurare), fin da L’Album de la Famille D. (1971), è un elemento fondamentale: ritratti anonimi, spesso sovrapposti e tendenzialmente sfocati. La fotografia è anche testimonianza dell’assenza?

Il mio discorso è quasi sempre lo stesso, sin dall’inizio dei tempi, ma quando ho voglia di dire qualcosa cerco sempre il miglior modo per dirla, utilizzando il linguaggio della mia epoca. Oggi non utilizzo quasi più il mezzo fotografico, ma il linguaggio della mia epoca erano la fotografia e il video. Il vantaggio della fotografia, quando la utilizzavo, è quello che diceva Roland Barthes: quando si vede la fotografia di una persona significa che c’è stato qualcuno. E’ una sorta di prova del reale, anche se può essere una prova falsa del reale. Io ho utilizzato la fotografia con questo scopo, ma allo stesso tempo, considerando che L’Album de la Famille D. è come tutti gli album di famiglia, che sono più o meno simili e descrivono un’analoga realtà sociologica, come la festa di natale o la nascita del bebé, è anche un oggetto collettivo.

L’infanzia è un periodo cruciale della vita dell’individuo, come per altri artisti – penso, in particolare, a Louise Bourgeois – la sua esperienza è diventata centrale nel libro Recherche et présentation de tout ce qui rest de mon enfance, 1944-1950 (1969), punto di partenza per l’elaborazione artistica nell’ambito della “mitologia individuale”. L’arte, per lei, è stata anche una forma terapeutica?

Da una parte, come sostiene Tadeusz Kantor, portiamo tutti un bambino morto dentro di noi. Anche il piccolo Christian che sta dentro di me e che sparisce sempre di più, ovvero l’infanzia di cui rimane solo qualche traccia, si porta dietro un trauma. Nel mio caso è un trauma storico. Vista la mia data di nascita il trauma è stato che la maggior parte degli amici dei miei genitori erano sopravvissuti della Shoah e che all’età di due o tre anni ho sentito dei racconti assolutamente spaventosi che mi hanno colpito tanto. Non potevo andare a scuola perché avevo troppa paura di uscire di casa. Invece per Louise Bourgeois, una delle mie artiste preferite, il trauma era evidentemente il rapporto con suo padre. Penso che all’origine della vita di ogni artista ci sia un trama, nel senso psicoanalitico del termine. Per tutta la vita l’artista parla di questo trauma e parlandone riesce più o meno a guarirlo. L’arte serve a migliorare la relazione con quel trauma.

Rispetto alla dualità caso-senso di colpa, mi ha colpito molto il racconto del gatto dei suoi genitori – associato all’idea di paura, tradimento, pericolo e sopravvivenza – che loro dovettero sopprimere perché un giorno fece la pipì sul pianerottolo di casa. La legge francese del tempo impediva agli ebrei di avere dei gatti e un vicino, sapendo che suo padre era ebreo, minacciò di denunciarli.

Quella sul caso è un’interrogazione che mi sono sempre posto nel mio lavoro. C’è una sorta di costruzione del mondo che non posso capire, dove è scritto il mio destino per cui il mio aereo si schianterà questo pomeriggio tornando da Roma? O è puramente caso? Si crede che ci sia una costruzione generale del mondo, un destino, quindi la religione, oppure che tutto sia completamente disordinato e che il mondo sia spiegabile solo tramite il caso. Personalmente penso che si tratti del caso, ma non ho una vera risposta su questo soggetto. Per l’allusione alla storia del gatto, dimostra semplicemente che non bisogna mai dare il potere a qualcuno, perché è una cosa estremamente pericolosa. Quel qualcuno, generalmente, ha voglia di uccidere il suo vicino. Uno dei traumi che ho avuto quando ero bambino è stato proprio questo. Da giovanissimo ho imparato che ognuno di noi poteva uccidere il proprio vicino. Poteva anche salvarlo, ogni tanto, ma generalmente voleva ucciderlo.

In che modo il tema della memoria, archivio e catalogazione – mi riferisco, in particolare, alla collezione di registrazioni dei battiti cardiaci in Giappone, ma anche alla cinica raccolta delle immagini del suo studio (24 h su 24) che un collezionista-giocatore d’azzardo ha acquistato e raccoglie in una sorta di bunker in Tasmania – per lei implica sempre un concetto di fallimento?

Una delle grandi interrogazioni che mi sono sempre posto nella vita è l’importanza di ogni essere, per la sua unicità e, allo stesso tempo, per la sua fragilità. Quindi tutta una parte del mio lavoro è stata di provare a salvare quella che ho chiamato la piccola memoria. La grande memoria sta nei libri, la piccola memoria scompare. E, come si dice in Africa, quando un vecchio muore è una biblioteca che scompare. Quindi, naturalmente, fin dall’inizio sapevo che era un fallimento. Non si può conservare niente, è una somma di lotte contro l’impossibilità di riuscirci. Nell’isola di Tishima posso avere circa 150 mila battiti di cuore di paesi diversi, e adesso tanti di quei cuori appartengono a morti. Ma il fatto che siano morti non impedisce niente, dimostra soltanto che ci sono state delle persone e che questa gente è scomparsa. Quell’uomo che in Tasmania registra la mia vita da più di dieci anni non possiede niente, perché quando sarò morto avrà delle immagini in cui mi si vede mentre mi metto le dita nel naso e la cosa non è molto interessante, Tutti i tentativi per preservare qualcosa sono destinati a essere un fallimento, quindi anche tutta la mia attività sarà un fallimento.

Con Annette Messager il rapporto è regolato dalle norme: la prima è che nessuno dei due va nello studio dell’altro e che si dorme in camere separate. C’è, però, una certa corrispondenza tra voi nell’esplorazione di tematiche legate alla memoria, anche attraverso l’utilizzo di oggetti spesso “riciclati”. Nell’approccio di Annette è presente anche una componente giocosa e ironica che non c’è nel suo…

Con Annette, effettivamente, abbiamo sempre avuto la volontà di vivere separati, separando totalmente la vita professionale da quella personale. Ciascuno ha la propria casa e nessuno di noi parla del lavoro dell’altro. Lei non viene mai ai miei vernissage ed io non vado ai suoi. Se due artisti vivono troppo vicino è molto pericoloso, perché poi ci sono troppe similitudini. Noi siamo estremamente diversi. Non c’è alcun legame, a parte quello sentimentale. Ci divertiamo a dire che ci incrociamo negli aeroporti!