La notizia circola ormai da giorni: dopo una reunion che doveva essere occasionale e tre concerti-evento a Berlino (tutti sold out, per un pubblico quasi solo di italiani) i Cccp hanno deciso di festeggiare il quarantennale dal loro debutto con un tour italiano. La data clou della storica band postpunk che ostentava provocatoriamente simboli sovietici nel paese del Partito comunista più grande d’Occidente è prevista per il 21 maggio prossimo a Bologna, in piazza Maggiore. Lo spazio tra la statua di Nettuno e la Basilica di San Petronio verrà chiuso al pubblico. Per entrare in piazza e assistere allo show bisogna pagare il biglietto: 50 euro. La cosa non è piaciuta a molti, si preparano contestazioni, il Collettivo universitario autonomo ha lanciato un appuntamento rivendicando il diritto all’«autoriduzione».

LA CONTESTAZIONE al concerto in piazza Maggiore evoca illustri precedenti storici. Era il primo giugno del 1980, mancavano due mesi alla strage della Stazione, quando nello stesso luogo suonarono i Clash. Quell’evento è ormai parte della tradizione sociale e del costume contemporaneo della città, informa una miriade di aneddoti e compone una storia orale polifonica. Chi c’era, tra un calice e l’altro ai banconi delle osterie del Pratello, a un certo punto non può evitare di raccontartelo e di darti la sua versione. Quel giorno è stato ricostruito con dovizia di particolari anche in un libro (Bologna 1980 – Il concerto dei Clash in Piazza Maggiore nell’anno che cambiò l’Italia, a cura di Ferruccio Quercetti e Oderso Rubini, edito da Goodfellas) e raccontato in un perfetto gioco di incastri e punti di vista da un podcast di Marco Silvestri che da poco è disponibile sul portale RaiPlaySound. Inoltre, per capire in che modo appuntamenti di questo genere riescono a coagulare e rappresentare un momento storico si può leggere anche Rumore rosso (Il Saggiatore, 2023), in cui il musicologo Goffredo Plastino ricostruisce il sentimento, le contraddizioni e la catena di episodi paradigmatici che costellò l’attesissimo concerto di Patti Smith, sempre a Bologna, dell’anno precedente.

NEL CASO DEI Clash, accadde che il Pci bolognese, consapevole della frattura con un pezzo di città e con la sua vivace e numerosa componente giovanile che risaliva al 1977 provò a lanciare un segnale. Quando Mauro Felicori, all’epoca giovane funzionario del Pci e oggi assessore alla cultura nella giunta regionale di Stefano Bonaccini, provò a esplorare la faccenda si sentì dire che gli unici che potevano mettere in relazione quel due mondi, l’amministrazione rossa e il movimento radicale, erano proprio Joe Strummer e compagni. Non se lo fece ripetere due volte, alzò la cornetta del telefono e organizzò il concerto del gruppo che aveva da poco sfornato il suo disco forse più iconico, London calling. In quell’occasione la piazza rimase aperta, lo show libero raccolse gente da tutta Italia (ma qualche sfortunato che si presentò il giorno dopo: non sapevano che l’esibizione era stata anticipata di 24 ore per lasciare la piazza al comizio del segretario Partito socialdemocratico Pietro Longo).

I CLASH ERANO probabilmente all’apice della loro vena creativa: seguivano ad assorbire tutto ciò che gli stava attorno, a mescolare il rock’n’roll con le musiche del mondo lasciando intatta la carica primitiva del punk e mantenendo la loro vena politica. Non tutti riuscivano a capirlo. A testimonianza della poca apertura mentale di certa sinistra resta la cronaca dell’esibizione vergata da un giovane cronista dell’Unità di nome Michele Serra. Gli passò davanti la storia e non se ne rese conto, consegnando alle stampe un testo pieno di luoghi comuni e pregiudizi. «Il concerto dei Clash nella sua ritualità scontata e sclerotica, nella sua violenza da dépliant alternativo, nei suoi isterismi risaputi, ha confermato tutti interi i limiti paurosi e l’ostinata chiusura della cosiddetta ’cultura rock’», scrisse.

MA CIÒ CHE QUI ci interessa è che, appunto, anche quel concerto venne contestato. Per paradosso si fecero sentire soprattutto i punk: distribuirono un volantino che denunciava l’operazione politica che stava dietro all’evento. Quella manifestazione, consumatasi ai lati della piazza ma a suo modo passata alla storia, servì a far sapere che la frattura bolognese del marzo del 1977, dopo l’omicidio di Francesco Lorusso non era affatto ricomposta come avrebbe voluto l’amministrazione rossa. E confermava che le sottoculture, nonostante la fragilità tipica delle rivolte dello stile e a dispetto della loro natura spesso generazionale, possono essere più ostinate delle organizzazioni politiche.

È GIUSTO CHIEDERSI, 43 anni più tardi, cosa rappresentino le annunciate contestazioni dopo al live di Ferretti&Zamboni. Qualcuno si scandalizzerà per la natura commerciale dell’evento, altri non finiranno di lamentarsi per la nota deriva a destra di Giovanni Lindo Ferretti, che da prestigiatore dei simboli e manipolatore di feticci ha da tempo sostituito la paccottiglia filo-sovietica con il cattolicesimo reazionario. Altri ancora, avranno giustamente notato le scelte mainstream di un gruppo che nelle ultime settimane (solo per dirne una) ha deciso di affidare all’opinionista televisivo Andrea Scanzi l’introduzione dal palco dei live berlinesi. Lo diceva, in fondo, un bolognese illustre e ancora amatissimo come Roberto Freak Antoni, lui sì epigono della natura punk del Settantasette sotto le due torri, parlando di Ferretti con Rolling Stone: «Ha messo su un’impresa artistica facendo una critica ironica di un certo tipo di massimalismo, senza aver capito che dietro al comunismo c’è una visione particolare. Non si è mai confrontato con la lotta di classe? Non ha mai cercato di capire cosa significa il socialismo? Ferretti è un simulatore affascinato dalle parole d’ordine».

PROBABILMENTE tutto questo c’entra. Ma se si vuole cercare il senso profondo di quello che accade ai giorni nostri attorno al controverso concerto bolognese dei Cccp bisogna leggere il sismografo che dal palco di piazza Maggiore segna le scosse telluriche che attraversano tutta la città. «Le recinzioni previste per il concerto del 21 maggio rappresentano un campanello d’allarme lampante di una tendenza più generale, e in questo modo crediamo che vadano affrontate – affermano ad esempio gli studenti del Cua chiamando alla mobilitazione – Da mesi le piazze e le strade del centro di Bologna sono lasciate in balia di camionette, volanti, jeep militari: pronte a limitare e perseguitare qualsiasi forma di espressione culturale, qualsiasi voglia di stare insieme. Non è più tollerabile un attacco così indiscriminato alla stessa possibilità di vita in questa città, una vita che non vogliamo sia ridotta alla misera sopravvivenza, allo sterile ‘Produci, consuma, crepa’ che proprio i Cccp cantavano nel 1982». Se si indaga il senso di svuotamento degli spazi pubblici bolognesi, insomma, si capisce che la città che ha acconsentito (solo per dirne una) alla emblematica quanto fallimentare operazione farinettiana di Fico rischia di trasformarsi in un parco a tema fatto di trattorie e AirBnb. E ci si accorge che nella piazza che si pretende esclusiva del 21 maggio prossimo, la cerimonia della privatizzazione spettacolare viene affidata proprio alla band che ha giocato in chiave parossistica con la simbologia comunista.