L’aula del Senato francese è silenziosa, l’appuntamento è di quelli importanti: la Commissione d’inchiesta sulla concentrazione dei media riceve in audizione Vincent Bolloré, l’industriale bretone di 69 anni che, nel giro di qualche anno appena, è riuscito a mettere in piedi un vero e proprio impero mediatico di estrema destra.

Il relatore David Assouline comincia elencando i media posseduti dalla holding famigliare, Vivendi: una lista la cui sola enunciazione dura diversi minuti, da Canal+ alla radio Europe1, dalle guide Routard all’editore Fayard, dai Livres de poche a Paris Match. Decine e decine di titoli, tra radio, stampa, tv, editoria. Perché aver costruito un tale impero, senza precedenti in Francia? Bolloré, seduto al fondo di un’aula semivuota causa Covid, è impassibile. «Per noi non ci sono questioni di ideologia politica», assicura ai senatori, increduli, «il nostro interesse nei media è puramente economico».

Sin dal 2015, Bolloré ha fatto man bassa dei media francesi, grazie a una serie di acquisizioni spregiudicate. In quell’anno la sua holding Vivendi prese il controllo di Canal+. Dopo aver licenziato i principali quadri dell’azienda, la prima mossa del nuovo padrone fu la messa al bando della satira e, soprattutto, del giornalismo d’inchiesta. Intervenne personalmente per bloccare un’inchiesta sull’evasione fiscale del Crédit Mutuel, una banca partner di Vivendi: «Ai clienti bisogna parlare degli argomenti che li interessano», si giustificò il magnate.

«Qualche giorno più tardi la direzione di Canal+ ci comunicò che non bisognava più fare inchieste su partner attuali o futuri del gruppo», ricorda Jean-Baptiste Rivoire, ex-caporedattore delle inchieste di Canal+. «In quel momento capimmo che non avremmo più potuto lavorare». Nel frattempo, Bolloré aveva dato l’assalto al canale all-news di Canal+, ITélé, ottenendo il licenziamento della quasi totalità dei giornalisti e ribattezzandolo CNews. Oggi è il megafono ufficiale dell’estrema destra francese, in particolare del candidato Éric Zemmour. «Il giornalismo non gli interessa, se non in quanto strumento di influenza», dice Rivoire.

È proprio su CNews che ha preso forma l’attuale candidato Zemmour, quando, ancora polemista, era stato bandito dai media mainstream per le sue posizioni razziste e le relative condanne giudiziarie. Fu il canale all-news di Bolloré ad accoglierlo e promuoverlo, nel 2019, in veste di polemista. Interrogato a proposito dai senatori, Bolloré ammette: «Ho pranzato una sola volta con Zemmour, per proporgli di venire su CNews».

Eppure, con il magnate «abbiamo molti punti di convergenza intellettuale», diceva dal canto suo Zemmour, nel 2019, al settimanale di estrema destra Valeurs Actuelles. Tra i due vi è un legame che non è stato scalfito dalle molteplici condanne per incitamento all’odio razziale di Zemmour, né dalle critiche della società civile. Un legame che ha permesso al polemista di spargere le sue idee ultrareazionarie in prime-time, per due anni interi, sulla tv di Bolloré, prima di candidarsi alle presidenziali.

Da allora, Vivendi apporta al candidato Zemmour un sostegno organico. Secondo uno studio dell’Institut National de l’Audiovisuel, Zemmour è di gran lunga il candidato più citato non solo su CNews, ma anche su Touche pas à mon poste, uno dei talk show più seguiti del paese in onda su uno dei canali di Bolloré, e su Europe 1, una delle radio commerciali con più audience, recente acquisizione di Vivendi. Se Zemmour è stato uno dei fatti mediatici dell’anno, «è evidente» che le reti di Bolloré «sono state i ferri di lancia di questa mediatizzazione», ha scritto l’autore dello studio, Nicolas Hervé.

Un’esposizione mediatica che ha avuto un certo effetto, visto che Éric Zemmour è accreditato del 15% delle preferenze secondo i sondaggi. Questo potere è stato costruito sulle rovine delle redazioni conquistate con i soldi e con la forza, secondo Pauline Adès-Mevel, portavoce di Reporter sans frontières. «I giornalisti che subiscono questi processi descrivono un vero e proprio regno del terrore. Bolloré ha una visione totalitaria del giornalismo», esclusivamente strumentale ai propri interessi economici e, ormai, politici.