Doveva essere l’unico obiettivo del governo «strettamente transitorio» di Jeanine Áñez: la convocazione di nuove elezioni «libere e democratiche» nel più breve arco di tempo possibile. Peccato, però, che per il governo non sia mai il momento giusto.

Se l’accordo iniziale, raggiunto dopo lunghi e travagliati negoziati tra l’esecutivo e il Movimiento al Socialismo, prevedeva che le elezioni si tenessero il 3 maggio, ci ha pensato il Covid-19 a graziare l’autoproclamata presidente, offrendole su un piatto d’argento la possibilità di posticipare le elezioni a tempo indeterminato. Prima la salute dei boliviani, aveva spiegato. E come darle torto?

CHE POI I SONDAGGI dessero in vantaggio proprio il candidato del Mas, l’ex ministro dell’Economia Luis Arce, relegando la presidente, nel frattempo decisa a candidarsi, solo al terzo posto, era appena un dettaglio irrilevante. Ma pure il secondo accordo raggiunto tra il Tribunale supremo elettorale (Tse) e le forze politiche, che ha fissato la nuova data per il prossimo 6 settembre, rischia di non andare in porto.

Se, dopo l’approvazione del Parlamento, si attendeva infatti solo la promulgazione da parte dell’esecutivo, la presidente golpista ha avuto un subitaneo ripensamento, sempre, ovviamente, in nome della salute dei boliviani.

Il Tse e l’Assemblea legislativa plurinazionale, ha dichiarato, devono tener conto dei rischi per la salute che comporterebbe lo svolgimento delle elezioni in piena pandemia. E così, in una lettera inviata alla presidente del Senato Eva Copa, ha sollecitato uno studio «medico e scientifico» che possa giustificare la decisione.

LA PAZIENZA dell’ampia fascia della popolazione che non sostiene il governo si sta però esaurendo. La Central Obrera Boliviana (Cob) e la Federación Sindical de Trabajadores Mineros de Bolivia (Fstmb) hanno non a caso lanciato alla presidente un chiaro avvertimento.

«Ti restano due strade», le ha spiegato il segretario esecutivo della Fstmb Orlando Gutiérrez: o il via libera immediato alle elezioni nella data prevista del 6 settembre o «la sollevazione del popolo». E in maniera ancora più esplicita: «O te ne vai con le elezioni nazionali democratiche o te ne vai con una convulsione sociale».

Di motivi per cacciarla, in effetti, ve ne sono fin troppi. La gestione della pandemia da parte del governo golpista, malgrado le ostentate preoccupazioni di Áñez per la salute dei boliviani, è infatti duramente criticata dalla popolazione, tanto per l’assenza di misure di sostegno alle fasce più basse quanto per la manifesta inadeguatezza dimostrata di fronte all’emergenza sanitaria ((i circa 22.500 casi di contagio dicono assai poco a fronte dell’esiguo numero di tamponi realizzati).

IN TUTTO IL PAESE il sistema sanitario è al collasso, con gli ospedali che in molte città non possono più ricevere malati. E mentre a La Paz 120 medici sono stati contagiati dal virus per mancanza di mezzi di protezione, a Santa Cruz il personale sanitario ha iniziato uno sciopero della fame per protestare contro l’assenza di risorse. Ma a gettare discredito sull’esecutivo è stato anche lo scandalo dell’acquisto di 170 respiratori di fabbricazione spagnola a un costo quasi quattro volte più alto del dovuto, per il quale è finito agli arresti lo stesso ministro della Salute Marcelo Navajas, accusato di malversazione di soldi pubblici, traffico di influenze e reato contro la salute pubblica.

All’ultimatum dei movimenti, come pure a qualsiasi forma di dissenso, il governo risponde però con i soli strumenti a sua disposizione: misure coercitive e repressione militare. Se già il 7 maggio l’esecutivo aveva emanato un provvedimento che punisce chiunque divulghi «informazioni che mettano a rischio la salute pubblica o che generino incertezza nella popolazione», ora la presidente de facto ha dato istruzioni alla polizia perché si prepari a «frenare la violenza dei violenti», come Áñez definisce i movimenti sociali.

Cioè a reprimere qualsiasi eventuale manifestazione a favore dello svolgimento delle elezioni.