Volatilizzatasi dalle carte geografiche alla fine del Settecento a seguito della spartizione del suo territorio tra Austria, Russia e Prussia, la Polonia fino alla ritrovata indipendenza nel 1918 è esistita esclusivamente nei vagheggiamenti nostalgici degli esuli o negli sfortunati disegni politici di coloro che lottarono per ricostituirla in quanto stato indipendente. L’estremo affronto alla sua identità nazionale avvenne nel 1867, quando avendo quattro anni prima soffocato un ennesimo tentativo insurrezionale, lo zar Alessandro II abolì la dizione «regno di Polonia» che indicava le province a lui sottomesse, rimpiazzandola con quella molto più generica di «territorio della Vistola». Le implicazioni surreali derivanti dalla condizione fantasmatica cui si ritrovava relegata la patria di Copernico, di Chopin, di Conrad non mancarono di stimolare la fantasia degli scrittori, anche stranieri: Alfred Jarry, presentando al pubblico parigino il suo Ubu re il 10 dicembre 1896, ne situò l’azione per l’appunto «in Polonia, ovvero da Nessuna Parte».

L’immagine di una entità geopolitica scomparsa dagli atlanti ma preservata dalla finzione letteraria viene ripresa ora da Silvano De Fanti per titolare la raccolta di prose brevi di Boleslaw Prus, Racconti da un paese che non c’è, che ha appena curato per Marsilio (pp. 306, € 18,00). La scelta è tanto più emblematica se si considera che l’autore, al secolo Aleksander Glowacki, apparteneva a quella generazione che aveva messo da parte il sogno romantico di un risorgimento nazionale per dedicarsi a una opera più pragmatica di rinnovamento della società secondo le teorie del positivismo. Miglioramento delle condizioni di vita, diffusione dell’istruzione, emancipazione femminile, queste alcune delle parole d’ordine cui si ispirava il giovane scrittore quando nel 1865 dalla provincia approdò a Varsavia per iscriversi all’università. Come altri compagni di studi, anche lui si avvicinò presto alla rivista «Przeglad Tygodniowy», che predicava l’abbandono del velleitarismo insurrezionale a favore di interventi capillari in soccorso delle classi disagiate. Se proprio era impossibile fare la Polonia, bisognava quantomeno provare a fare i polacchi.

Tra realismo e inclinazione onirica
A partire dagli Schizzi varsaviani pubblicati nel 1874, Prus impiegò a questo scopo tutte le proprie energie, immergendosi con inusitata risolutezza in quel paese che, purtroppo, di fatto esisteva già. Scenario dei suoi racconti sono infatti i bassifondi di quella che, se la Polonia fosse stata indipendente, sarebbe stata la sua capitale: una città immiserita, popolata da orfani, contadini inurbati, ragazze madri e canaglie più o meno inveterate che, di lì a qualche decennio e limitatamente al suo quartiere ebraico, trasmigrerà poi nella prosa abbagliante di Isaac Bashevis Singer. Sarebbe tuttavia sbagliato figurarsi Prus come un compassato pubblicista, autore di benintenzionate ma piatte novelle veriste: ad assicurare alla sua penna una vivacità insolita nel panorama letterario polacco dell’epoca contribuì il suo senso dell’umorismo, qua e là venato di sarcasmo, reso bene in italiano da De Fanti. Se la tendenza a coniugare satira sociale e slancio filantropico non era una novità per la prosa positivista (lo dimostra il caso del medico Anton Cechov che, di origini modeste al pari di Prus, esordì scrivendo come lui «sciocchezzuole» sulle riviste umoristiche), ciò che di originale c’era nello sguardo dell’autore polacco era la capacità di fondere ampie vedute d’insieme con una sensibilità non comune per il dettaglio. L’infinitamente piccolo e lo smisuratamente grande coesistono nella sua pagina con effetti talvolta spiazzanti, a riprova che per Prus la scrittura, ancor prima che assolvere a finalità educative, rispondeva a una precisa tensione conoscitiva.

Colta a volo d’uccello o esplorata dal basso insieme ai suoi abitanti, la Varsavia di Prus è una città da indagare che non cessa di suscitare nell’autore nato in campagna un moto di stupore. Forse proprio per questo i brani più notevoli sono quelli in cui la realtà urbana si rifrange con esiti imprevisti nel prisma dell’immaginazione infantile, oppure si scompone in percezioni alterate dalla febbre o dalla sonnolenza. Così avviene in Vitaccia da orfani, dove la visione incantata della grande città, nonché la fiducia nella «naturale» bontà umana instillata al protagonista dalla madre, verranno messe a dura prova dalle disavventure che gli capiteranno una volta rimasto solo al mondo. Malgrado l’innegabile orientamento realistico dell’autore, capita spesso che sia l’elemento onirico a introdurre una svolta nella trama. Se nel Sogno di Giacobbe un incubo notturno convince un orfano ebreo, il piccolo Jakub, ad abbandonare l’idea di raggiungere la Palestina e a scegliere la via dell’assimilazione, nel Sogno uno spiantato studente di medicina intraprende un viaggio di iniziazione nell’oltretomba «grazie» ai fantasmi che lo visitano mentre, stremato dall’inedia, giace in un letto d’ospedale. Altrove (nell’Organetto di Barberia) Varsavia si tramuta in un gigantesco congegno dove tutto è collegato, e l’esibizione di un suonatore ambulante significa contemporaneamente l’unica gioia per una bambina cieca e intollerabili seccature per un avvocato sprofondato nella lettura dei suoi incartamenti. La città cantata da Prus dimostra una singolare empatia con i suoi abitanti, fino a confondersi inestricabilmente con loro: «Tomasz percorreva via Miodowa da trent’anni e a volte pensava che era parecchio cambiata. La via Miodowa avrebbe potuto pensare la stessa cosa di lui».

La «bambola» introvabile
Benché condensati talora in poche pagine, questi racconti tradiscono a volte la familiarità del loro autore con scritture di grande respiro: è il caso del pirotecnico Ombre, dove l’umile occupazione di chi ogni sera accende i lampioni nelle strade si trasforma in un vero e proprio incantesimo grazie al quale le tenebre vengono quotidianamente sconfitte. D’altronde, il nome di Prus era legato innanzitutto al romanzo-fiume La bambola (purtroppo introvabile in italiano) che, malgrado la sua indubbia complessità compositiva, era riuscito a calamitare l’attenzione del pubblico – pare che la redazione di «Kurier Codzienny» fosse stata subissata da lettere di proteste, allorché ne aveva sospeso temporaneamente la pubblicazione a puntate, essendo l’autore andato in vacanza. Una ennesima dimostrazione del fatto che tra il paese descritto da Prus e quello che avrebbe voluto risorgere esisteva ben più di un punto in contatto.