Tra il 1969 e il 1971 Alighiero Boetti e Salvo Mangione, ai più noto con il solo nome di battesimo, condividono lo studio in Corso Principe Oddone a Torino. Amici e sodali, tanto nella ricerca quanto che nel desiderio di evasione con uso di sostanze non sempre lecite, a quel tempo sono due delle promesse artistiche che si sono mosse all’interno dell’avanguardia concettuale cittadina, riunita all’interno dell’Arte Povera proposta da giovani galleristi che poi passeranno alla storia come Gian Enzo Sperone e Christian Stein. Alla fine del ’71 Boetti decide di trasferirsi a Roma, ponendo termine a quel momento di fervore spalla-a-spalla: la ricerca di entrambi comincia a prendere una direzione differente.
Racconta i due anni di amicizia torinese la pregevole mostra Boetti-Salvo Vivere lavorando giocando – curata da Bettina Della Casa e ospitata dal MASI Museo d’arte della Svizzera italiana di Lugano fino al 27 agosto –, che mette in dialogo le opere dei due artisti (centocinquanta circa) in un confronto serrato in cui non mancano reciproche intromissioni, influenze, citazioni. Allestita contrapponendo parete destra e sinistra della galleria – a destra Salvo, a sinistra Boetti –, la mostra dà evidenza a un percorso segnato, pur nelle differenze, dalla complicità e dalla condivisione di tempi e spazi, in cui «Alighiero, l’artista concettuale, e Salvo, il pittore di talento, formarono insieme un terreno comune su cui confrontarsi, un territorio mentale condiviso dove alimentare, constatare, verificare, esasperare le proprie personalissime urgenze creative». È una sorta di cerchio magico, alimentato da «cortocircuiti di pensiero, veloci, istantanei e fulminanti».
Vivere lavorando giocando apre con una sezione dedicata alla ricerca del «sé» (principalmente attraverso la forma dell’autoritratto fotografico in bianco e nero), rispetto a cui gli artisti reagiscono con strategie differenti, se non opposte, muovendo però dalla comune premessa, come scrive la curatrice, «secondo cui ogni forma di identità e autorialità o di sua messa in discussione si formalizza attraverso processi di riproduzione, traduzione e spostamento operati sull’immagine». Nel caso di Salvo la proiezione è rivolta all’«altro» attraverso la sostituzione talvolta in forma autocelebrativa; in Boetti, invece, il sé è il suo doppio, è nell’immaginare Alighiero e Boetti, un gemello inventato eppure possibile.
Le sezioni successive (Fare frasi e Tautologie) insistono in maniera particolare sul linguaggio, sia quello verbale che quello logico. Ecco quindi gli arazzi boettiani con ricamate frasi come Segno e disegno, Ordine e disordine o solidi di metallo, dipinti con vernici di cui recano il nome industriale, messi a confronto con neon e pitture che portano il nome di Salvo, nonché le lapidi su cui sono incise frasi dal gusto epigrammatico come Più tempo in meno spazio o l’ironico Io sono il migliore, in granito con scritte color oro.
La mostra prosegue nel delineare come gli artisti abbiano differentemente lavorato sul tema del tempo, misurato da Boetti rispetto alla propria persona, come ad esempio ci indica la scritta che celebra il suo centenario dalla nascita, mentre in Salvo la relazione è con la storia, in particolare quella dell’arte, cui egli ardentemente ambisce, autoritraendosi nelle fattezze di opere dei maestri del passato o ponendosi in forma di lista tra i grandi artisti della storia dell’arte come Raffaello, Tintoretto o Pontormo. Ma comune ai due autori è anche l’impiego tematico della geografia, che è declinata da Salvo sotto forma di Sicilia e Italia (dipinte a olio), verso le quali egli avverte un senso di appartenenza testimoniato dalla grande ripetizione iconografica dei soggetti; Boetti invece realizza numerose mappe, frutto delle sue ripetute permanenze in Afganistan e di una concezione complessa e articolata del mondo, a cui l’artista apre le proprie porte.
Negli anni successivi – Boetti va a Roma nel ’72 e sono incessanti i suoi viaggi – gli artisti si frequentano di meno e maturano due scelte linguistiche differenti. È più tradizionale la pittura di Salvo, la quale cede poi completamente alla figurazione diventando, come scrive Giorgio Verzotti nel suo saggio in catalogo, una sorta «di precursore delle estetiche postmoderne», che paiono però, a quarant’anni di distanza, un progressivo anacronistico ripiegarsi sulla pittura. Rimane invece più concettuale, processuale e articolata la ricerca di Boetti, che lavora sempre più delegando ad altri la realizzazione dei propri lavori, ma rimanendo artista di rara acutezza e fragranza.