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Boatto, il viandante astrale

Boatto, il viandante astraleAlberto Boatto, 1981, fotografia di Massimo Piersanti

A Roma, MAXXI, "Lo sguardo dal di fuori", a cura di Stefano Chiodi La mostra di Alberto Boatto in occasione della donazione dell’archivio al museo, fatta dalla moglie Gemma Vincenzini: un critico d’arte inquieto, versato all’antropologia del negativo «con» Jünger

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 15 novembre 2020
Copertina di «cartabianca», n. 3, 1968

 

Lo sguardo dal di fuori: il titolo della mostra su Alberto Boatto curata da Stefano Chiodi, al MAXXI, con passione non inferiore all’acribia (a celebrare il dono al Museo, degli eredi, del formidabile archivio di cui offre sostanziosi trailers), suona oggi tristemente ironico. Perché mentre scrivo non so quando, e se, chi mi legge potrà visitarla (c’è tempo, comunque, sino al 10 ottobre dell’anno prossimo). Ma questo dubbio risponde bene, in fondo, all’animus interrogandi di Boatto. Un’inquietudine sottile, venata d’uno spleen micidiale, sempre trattenuta però dentro lo schermo minerale di quella cosa che, in mancanza di meglio, chiamiamo stile.
Perfetta allora la foto di Massimo Piersanti che fa da immagine-guida della mostra. Alberto, di profilo, vi figura reclinato su un’abbracciante chaise longue; il gomito poggiato sul bracciolo di legno, la gamba sinistra a cavallo dell’altra; gli occhi, forse, chiusi. Sullo sfondo un lavoro (direi di Vincenzo Agnetti) stampiglia la scritta NOTTE su fondo grigio. Lusso, calma e voluttà – almeno in apparenza. Perché quell’aplomb da Brummel baudelairiano, come detto, era tramato dell’insoddisfazione d’un io danneggiato in profondo che negli ultimi anni, peraltro, Alberto esternava sempre più volentieri: come a volerlo finalmente espellere fuori di sé. In una delle bellissime lettere esposte al MAXXI, a Claudio Parmiggiani confessava nel ’95, dopo aver letto il suo Stella Sangue Spirito, come non fosse, la propria, «la vera notte, la notte originaria fatta di astri e ordinata dagli dèi»: «la mia è una notte artificiale e spigolosa, piena di lampade e di fari che hanno espulso anche la Luna e pure quell’unica ‘stella’ che apre il titolo del suo libro».
A questa malinconia immedicata risponde pure l’epitaffio che per sé scelse di scrivere su un muro dell’Attico, quando nel 2006 Fabio Sargentini invitò gli amici a rispondere alla provocazione di Duchamp, D’altronde sono sempre gli altri che muoiono: «Solitario/ ha dissipato ogni suo giorno/ scavando cunicoli/ per esporsi/ alle radiazioni del mondo». Curioso autoritratto terragno e anzi ctonio, tra Kafka Celan e Zanzotto, di chi aveva modellato il suo stile, invece, su quello uranio, metallico e perlucido, di Ernst Jünger (in mostra anche un paio di cartoline del vegliardo di Hilflingen, 93enne, al «Liebes Kollege Boatto»); si allude appunto alle irradiazioni del maestro. Da lui aveva ripreso la maschera dello psiconauta con la quale, alla fine degli ottanta, ri-orientava il geniale saggio del 1981 che dà il titolo alla mostra (Il dialogo dello psiconauta, uscito su «alfabeta», entra nella riedizione dello Sguardo dal di fuori, Castelvecchi 2013). Così infatti s’era definito, Jünger, in Avvicinamenti: il libro frutto, nel ’70, delle esperienze con l’LSD.
Ricordando Boatto alla sua morte, il 9 febbraio 2017, sua moglie Gemma Vincenzini lo ha definito l’extra-vagante. Quasi un viandante astrale, alloghenes gnostico venuto da Infinitamente Lontano, che infinita nostalgia serba della sua provenienza: come il Silver Surfer dei fumetti, catafratto da un’inconcussa, inconsutile epidermide d’argento. L’archetipo del Dandy si aggira negli scritti di Boatto, nell’ipostasi moderna di Duchamp: non più l’«Ercole senza lavoro» di Baudelaire, il suo «venir meno all’azione» si fa «scelta, stato privilegiato, (…) magistero negativo dell’essere» sino infine, con sigla-sintagma in eloquente flashforward, a «isolarsi assolutamente nello spazio dal di fuori». E allora, in questa «condizione cristallizzata» – ha scritto Chiodi –, l’arte non è più «forza prospettica, agente decostruttivo o esercizio terapeutico», e si fa «momento scettico e malinconico, intriso di pessimismo, inclinato dal sentimento della profonda e tragica ironia della Storia».
Siamo all’indomani del Sessantotto, certo. Quando anche Boatto ha vissuto la sua stagione engagée, con le riviste «cartabianca» (tre numeri con Sargentini nel ’68) e «senzamargine» (numero unico, con fantastica grafica di Magdalo Mussio, nel ’69: la testata, si noti, presta il titolo alla grande collettiva del MAXXI, in parallelo curata da Bartolomeo Pietromarchi, sui Passaggi nell’arte italiana a cavallo del millennio). Ma qualche anno dopo uno spirito gemello, Tommaso Trini, gli dirà che «non è mai stato», lui, «autostoppista della storia». E infatti, a leggere quelle pagine, si nota lo spirito idiosincratico, anche allora, di questo desdichado del nostro tempo. Il terzo numero di «cartabianca», novembre ’68, ha per titolo CONTESTAZIONE ESTETICA E AZIONE POLITICA. All’interno, a corredo del pezzo di Boatto, due immagini (in quella che pare, avanti lettera, un’apertura della Divina Mimesis di Pasolini). La prima, «Parigi 1968 Boulevard Saint-Michel»: fra due auto bloccate sul pavé in parte divelto, un giovane uomo di spalle ne trasporta a braccia un altro privo di sensi. Una Pietà capovolta. A fronte, Pino Pascali «nel film ‘SKMP2’ di Luca Patella girato nell’agosto 1968»: il giovane eroe emerge dalle acque, a torso nudo, imperturbati i lunghi capelli. È Apollo, o meglio Dioniso, Anadiomenos: la cui disperata vitalità prefigura la morte achillea del settembre subito successivo. L’articolo riconduce i fatti di Berkeley Roma Parigi a un’«urgenza biologica», che dona loro «una estensione totale, più antropologica che politica».
Proprio l’antropologia del negativo guiderà Boatto nella mostra alla bolognese de’ Foscherari, Ghenos Eros Thanatos, che nel ’74 segna la sua svolta del respiro (sempre Chiodi ne ha restaurato il non-catalogo, magnifico, che ne derivò). E ha raccontato che da quel testo, all’ultimo momento, s’indusse a espungere una citazione appunto da Jünger – «per andare allegramente incontro alla vita come si conviene» – per timore che lo si «buttasse tra i fascisti» (per reinserirla con puntiglio, poi, nella riedizione del 2016). Questo «sì» scandaloso alla «vita», una volta di più ispirato allo stoicismo trascendentale dello Psiconauta, impronta due pagine disperse di Boatto che restituiscono la chiave esistenziale del suo sguardo dal di fuori. Ancora su «alfabeta», nell’87, racconta due luoghi simbolo, due matrici ancestrali a chiasmo: a Malta, nel cuore del Mediterraneo, «il tempio megalitico consacrato alla Grande Madre» gli ricorda la «sponda di partenza del viaggio», la «Terra in quanto corpo della madre». Dall’altra parte del mondo, a Nazca in Perù, le colossali piste precolombiane sono «punto di arrivo di un viaggio che si è portato fuori dal corpo della Madre Terra». Issato su un fragile biplano, dall’alto Boatto finalmente capisce il senso di quelle figure. L’Alfa e l’Omega del viaggio: dai cunicoli della terranera malinconia alle irradiazioni estatiche, alla lettera, di un cielo tanto liberatorio quanto terminale.
Suona a posteriori rabdomantico, allora, il commento di Fabio Mauri a Ghenos Eros Thanatos: «un disegno, una sorta di doodle», così lo descrive Chiodi, con «una linea retta ascendente («aereo» vi si legge al centro) contrapposta a una spirale avvitata verso il basso che termina con la parola “saggio”». Trovavano così sintesi, con aero-poema figurato ironicamente neo-futurista, ambedue i poli: le «aeree» piste di Nazca e le «materne», incancellabili viscere di Gozo, in cui affondava le radici quella scrittura. Ma soprattutto, aggiungeva Mauri, quel «saggio in quota» si muoveva «in una deliberata libertà che ha per secondo bersaglio (…) la letteratura. Anzi, la grande letteratura». Non saprei dire se quello fosse davvero, per Alberto, un secondo bersaglio. Ma sono sicuro che lo centrò in pieno.

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