Di recente Sanneke Kloppenburg è stata co-autrice di un articolo estremamente informativo in cui lei e i suoi due colleghi conducono un’indagine di quella che soprannominano «cryptogovernance climatica». Hanno analizzato i documenti di svariate organizzazioni internazionali che si occupano di governance climatica e hanno scovato un gran numero di tesi che potrei definire soltanto “tecno-risolutive” riguardo all’immenso potenziale trasformativo del blockchain. Eppure, leggendo l’articolo, ho avuto l’impressione che somigliassero a quelle «soluzioni non trasformative» – frase che prendo in prestito dal loro ottimo saggio – che circolano nel dibattito sulle politiche internazionali.

Come era prevedibile, emerge che gran parte di questo genere di discorso sulla cryptogovernance non è che l’ennesimo modo di legittimare gli approcci esistenti, fondati su una combinazione di tecnocrazia e di fiducia nel funzionamento delle soluzioni incentrate sul mercato.
Come viene chiarito dall’articolo, le tecnologie blockchain rafforzano inoltre molte delle tendenze esistenti della governance ambientale, fra cui – parola nuova per me – la “misuramentalità”.

C’è una convinzione diffusa, anche fra molte organizzazioni internazionali, che le tecnologie blockchain possano contribuire a risolvere la governance climatica. Lei e i suoi co-autori non ne siete convinti. Prima di analizzare le ragioni del vostro scetticismo, spieghiamo qual è la proposta dei sostenitori della cryptogovernance. Cosa si aspettano esattamente?
Secondo loro, il blockchain può aiutare a riparare gli errori umani nelle politiche e ambientali – che si suppone falliscano a causa di una mancanza di fiducia fra parti diverse. Con il blockchain la fiducia, la legge e la sua implementazione potrebbero venire “appaltate” a un codice informatico, che scriverebbe regole e leggi che verrebbero applicate automaticamente. In questo modo, tutte le parti coinvolte rispetterebbero le regole in modo automatico, senza bisogno dell’intervento di una parte terza o un’autorità centrale.

Per darci un’idea di cosa quest’immaginario di cryptogovernance significhi nella pratica, potrebbe farci qualche esempio di istituzioni – e progetti specifici – che stanno mettendo in pratica questa fede nelle possibilità politiche del blockchain?
Nel campo della governance climatica, questo immaginario si esplica in svariati modi. La convinzione più diffusa è che il blockchain rafforzi le politiche climatiche attraverso un sistema avanzato di monitoraggio e segnalazione delle emissioni di gas serra. La tassonomia delle emissioni è sancita dall’accordo di Parigi, negli articoli 4 e 14 che impegnano gli aderenti a comunicare e mantenere un contributo determinato a livello nazionale (NDC) per perseguire delle misure volte a ridurre le emissioni di CO2. È però diffuso il timore che, senza metodologie condivise e trasparenti, questi impegni siano inefficaci. È qui, secondo alcuni, che potrebbe entrare in gioco il blockchain, ma sinora – per quel che ne sappiamo – non ci sono ancora stati tentativi di metterlo in pratica.

Più in generale, mercati e finanziarizzazione sembrano continuare a giocare un ruolo importante nella formazione dell’immaginario climatico, con o senza blockchain…
Si, ci sono persone che sostengono che il blockchain possa contribuire al raggiungimento degli obiettivi climatici, facilitando lo scambio di monete e criptovalute orientate al clima; attraversate cioè da una filosofia incentrata sul clima – ma che a differenza delle soluzioni fondate sul blockchain che si concentrano solo sui mercati della CO2 esistenti, il token supply (la disponibilità di monete della criptovaluta, ndr) e il prezzo della moneta, non sono associati alla carbon metrics (l’inseme di parametri con cui si calcola il budget della CO2). Ad esempio, la criptovaluta SolarCoin incentiva la produzione di energia solare. O Energycoin, il cui intento è premiare le scelte climate-friendly con delle monete digitali, che rappresentano le emissioni di CO2 evitate da un consumatore e che avrebbero valore di scambio nelle comunità locali.

Nel suo lavoro, ha studiato approfonditamente come i vari attori internazionali della governance climatica parlano del blockchain e delle sue promesse. Qual è una importante osservazione che spicca fra le altre?
La narrativa generale che abbiamo identificato negli scritti e le conversazioni sull’uso del blockchain nella governance climatica è che questa tecnologia permetterebbe un’azione climatica più ambiziosa. Ma che non riguarda un cambio sostanziale nei metodi della governance climatica, quanto un modo di rendere più efficienti quelli già esistenti.

Quali temi sono dominanti in questo discorso?
Ne abbiamo isolati quattro fondamentali: il blockchain migliorerebbe l’affidabilità, la trasparenza, la responsabilizzazione e la democratizzazione dei dispositivi della governance climatica.

Partiamo dunque dall’affidabilità.
Il discorso sull’affidabilità viene eretto sulla convinzione che il blockchain possa risolvere gli errori e le frodi umane. Si sostiene che questa tecnologia possa rimpiazzare il bisogno di fiducia umana, riducendo l’incertezza e assicurando appunto l’affidabilità attraverso l’uso di un codice informatico. Pensiamo ad esempio ai processi di monitoraggio, comunicazione e verifica delle emissioni di gas serra (MRV): sono spesso macchinosi da un punto di vista amministrativo. Si immagina quindi che non solo il blockchain semplificherebbe queste procedure, ma che le renderebbe più affidabili perché le sue caratteristiche intrinseche impediscono che gli esseri umani possano manipolare i dati.

E la trasparenza?
In questo caso l’idea è che il blockchain, attraverso i propri calcoli e misurazioni, possa rendere visibili non solo quelle transazioni che avvengono nei mercati della CO2, ma anche le azioni climatiche di cittadini, imprese, nazioni. Si vedono gli attuali mercati della CO2 come carenti in trasparenza: l’aiuto del blockchain colmerebbe questa lacuna e integrerebbe un maggior numero di azionisti. Inoltre, il blockchain renderebbe visibili i progressi fatti dai vari paesi nel tagliare le emissioni, rendendo queste informazioni accessibili anche ad altre parti, come le Ong o i cittadini.

Le promesse sulla responsabilizzazione sono quindi distinte da quelle sulla trasparenza?
In un certo senso. Il terzo tema, la responsabilizzazione, scaturisce dai due precedenti. In questo caso si sostiene che stimolando la creazione di informazioni affidabili e trasparenti, il blockchain incrementi le possibilità di far sì che gli “agenti climatici” debbano rispondere delle proprie azioni. Per esempio, se il blockchain rendesse visibile i tagli delle emissioni dei singoli paesi, questo significa che le loro azioni – come quelle di altre importanti parti in gioco – possono essere monitorate.

La democratizzazione?
La teoria è che il blockchain, grazie alla sua natura decentralizzata e disintermediata, migliori la qualità democratica delle politiche di governance climatica. Il blockchain ci libererebbe da intermediari potenti e in questo modo renderebbe più semplice la collaborazione nella lotta al cambiamento climatico. Consentirebbe inoltre ai singoli cittadini di contribuire alla governance climatica, dal momento in cui renderebbe visibile l’impatto climatico delle azioni individuali.

Quali sarebbero, secondo lei, le conseguenze più plausibili qualora si dovesse impiegare diffusamente la tecnologia blockchain nella lotta al cambiamento climatico, in assenza di altri cambiamenti strutturali? Ci ritroveremmo in una nuova dimensione di consumismo green in cui ai consumatori del Nord del mondo viene assicuraro che il caffè che stanno bevendo è stato certificato “equo” e “sostenibile” attraverso il blockchain? Potrebbe semplicemente allungare la vita a ciò che pare un esperimento fallito – la commercializzazione del carbon offsetting?
Il rischio è proprio che il blockchain venga usato come una “soluzione semplice” alla crisi climatica. Questo significherebbe continuare a concentrarsi sulla semplificazione delle politiche esistenti, su filiere trasparenti di consumismo green mediate dal blockchain , e su soluzioni di carbon offsetting con un sistema di crediti basato anch’esso sul blockchain. Il problema di questo approccio è che inquadra gli individui come attori razionali con una capacità significativa di mettere in pratica un cambiamento. Ma il potere dei consumatori è limitato: le corporation, le istituzioni finanziarie, le politiche statali e le agenzie multilaterali hanno un’influenza molto più vasta sulla governance climatica e il suo impatto. (intervista completa su https://the-crypto-syllabus.com/)