«Nell’amore la disperazione mi portava più volte a desiderare vivamente di uccidermi: mi ci avrebbe portato sensa dubbio da sé, ed io sentivo che quel desiderio veniva dal cuore ed era nativo e mio proprio non tolto in prestito, ma ugualmente mi parea di sentire che quello sorgea così tosto perché dalla lettura recente del Verter, sapevo che quel genere di amore ec., finiva così». Nel 1818 Leopardi legge, appassionatamente, il Werther di Goethe e in quello stesso periodo cade la composizione dei grandi idilli, come L’infinito, come Alla luna, come La sera del dì di festa. Da questa consonanza, dall’impatto del Werther come «storia di un’anima», in tutta la varietà delle voci dei suoi personaggi, muove la suggestiva analisi della tipologia discorsiva degli idilli di uno dei nostri migliori studiosi di Leopardi, Luigi Blasucci: La svolta dell’idillio E altre pagine leopardiane (il Mulino «Saggi», pp. 212, € 20,00).
La sua è un’angolazione specifica, e questo gli permette di cogliere, attraverso un serrato e sottile close reading, la varietà in cui si dispiega la modalità della voce: il discorso interiore de L’infinito, «intimamente condotto come una dizione mentale», il discorso allocutivo di Alla luna, svolto nei modi animati e affabili di un colloquio, il particolare regime della Sera del dì di festa, dove i due moduli sono entrambi presenti nel corso della lirica, il primo, quello della «dizione mentale», nel mirabile inizio piano e descrittivo («Dolce e chiara è la notte e senza vento …») e nel finale rievocativo-narrativo («Nella mia prima età, quando s’aspetta …»); il secondo in tutto il resto della lirica, dal vocativo «O donna mia» sino alle interrogazioni accorate sui Romani. Ma se osserviamo più da vicino la realtà testuale della Sera del dì di festa ci accorgiamo che essa è ancora più variata, perché «la disperazione del poeta che si getta a terra e grida e freme, per la stessa oltranza del gesto, è da supporre che avvenga al di fuori dello spazio allocutivo, in una ristabilita dimensione monologante dell’io lirico. La registrazione dell’evento acustico, il canto dell’artigiano nel silenzio della notte, immediatamente successiva a quel gesto disperato, non suona dunque come una notificazione del poeta alla donna che dorme, ma come un trasalimento del personaggio monologante».
Strettamente legato all’analisi della modalità della voce negli idilli, che apre il volume, è il saggio «Leopardi e Petrarca», dove Blasucci affronta lucidamente uno dei temi cruciali per la definizione della poetica leopardiana. L’idea di un’affinità dei due poeti, in nome dell’interiorizzazione della parola poetica, della sua «purezza», fu particolarmente forte nei critici fra le due guerre, poi la linea Petrarca-Leopardi-Ungaretti perse d’attualità, con un orientamento del gusto poetico verso il modello montaliano. Rispetto a quei critici che, a partire da Walter Binni, hanno rimarcato gli elementi di diversità, soprattutto per lo scarto ideologico, il discorso di Blasucci è diretto a «una parziale attenuazione della tendenza decisamente dissociante che ha caratterizzato per anni il confronto fra Leopardi e Petrarca». Significativa è la sua vicinanza alla posizione di Stefano Carrai, per cui «i pretesi petrarchismi originano per lo più da un’adesione autentica a quel modello». Blasucci registra e ragiona anche i pronunciamenti, così dissonanti, di Leopardi, che nel 1818 ammira la «mollezza e untuosità quasi d’olio soavissimo», e nel 1829, forse stanco per la fatica del commento al Canzoniere, accettato su commissione, scrive che «non trova in lui se non pochissime, ma veramente pochissime bellezze poetiche». Clamorosa è poi la palinodia del 1837, in occasione della ristampa del commento, dove si pente per «la baldanza giovanile» che lo fece poco riverente verso il Petrarca, «la stima del quale di giorno in giorno, nonostante i suoi mancamenti che tutti sanno, cresce in me tanto, quanto ella scema in qualche imbrattatore di fogli che non mi degno di nominare».
La seconda parte del libro – dopo due incursioni nella prosa: il «giardino malato» di Zibaldone 4174-7, dove una barocca pagina di Daniello Bartoli viene imitata in controcanto parodico, e l’Epistolario – ci offre un lucido, movimentato quadro della critica leopardiana degli ultimi decenni attraverso i felicissimi ritratti di cinque «maestri»: Gianfranco Contini, Emilio Bigi, Gianfranco Folena, Sebastiano Timpanaro, Emilio Peruzzi. Di Contini viene messo in primo piano il grande saggio delle Implicazioni leopardiane (1947), con la fondamentale acquisizione metodologica – in risposta alla lettura di A Silvia proposta da Giuseppe De Robertis – delle varianti studiate in rapporto al «sistema». Andrà evitato però il rischio, mette in guardia Blasucci, che l’idea di «sistema», considerata come un tutto unitario e sincronico, vada a detrimento di ciò che costituisce la specificità dei singoli registri espressivi. In questo senso andranno accolte alcune controproposte di Emilio Peruzzi — due suoi saggi sono discussi da Contini – volte a rilevare effetti di espressività e di chiaroscuro. Nel mirabile Leopardi di Contini, osserva Blasucci, sembrano prevalere – tacitando il titanismo di certe canzoni, e la tonalità di grandiosa cosmologia della Ginestra – la dimensione idillica e la «sublime unilateralità». Emilio Bigi, che Blasucci sente metodologicamente molto vicino, unisce un’attenzione esplicita alla dimensione speculativa di Leopardi – e al suo rapporto con la storia: l’Arcadia, il Romanticismo … – a una cura, pur sempre primaria, della caratterizzazione stilistica. Così lo stato d’animo fondamentale delle Operette morali viene individuato in un «equilibrato sentimento di alto distacco e di suprema indifferenza». Così il Canto notturno non è tanto «popolare» quanto «primordiale» e il gioco tristemente monotono delle assonanze imprime al canto una cadenza generale «discendente», con un effetto di insistente e stanca desolazione.
Gli interventi di Folena su Leopardi sono sporadici, ma molto incisivi. Blasucci ricorda il magnifico saggio La canzone del tramonto – Petrarca (RVF 50) e l’intensa evocazione delle ore del giorno nel Sabato del villaggio – e ripropone il testo, che viene qui trascritto, della presentazione orale che Folena fece a Firenze, nel 1991, dell’edizione fotografica dello Zibaldone curata da Emilio Peruzzi: interpretata come un’occasione preziosa per leggere, nella corporeità del testo, «l’esperienza della mente nel tempo». La figura di Timpanaro è rievocata con consenso e anche con emozione, nel ricordo di una lunga amicizia. Con La filologia di Giacomo Leopardi (1955), con Leopardi e i filosofi antichi, confluiti insieme ad altri saggi in Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano (1965) Timpanaro demolì l’immagine – crociana, rondistica ed ermetica – di un Leopradi poeta puro, o soltanto poeta. La tesi di fondo suppone l’esistenza di un filone di classicismo illuministico, vitalmente alternativo al romanticismo medievaleggiante, la cui figura centrale è Leopardi, che rappresenta la punta avanzata di un pensiero laico le cui premesse speculative, e i cui sconsolati approdi materialistici, sono da ricercarsi nell’ambito di un sensismo di diretta derivazione settecentesca. Questa ricostruita trama concettuale si cala senza sfasature nell’interpretazione dei testi, perché il gusto, l’intelligenza, la sensibilità, per Timpanaro – e questo si può dire anche di Blasucci – sono tutt’uno con la filologia.