Nella percezione di un periodo musicale, di un genere, di una scena, il sound, i musicisti, i dischi, i cantanti, sono stati ovviamente l’aspetto prevalente ma altrettanta grande importanza è stata costituita dall’immagine. Soprattutto in ambito «black», il vestito, la capigliatura, la foto iconica, sono stati un elemento basilare, soprattutto in un periodo, tra gli anni Sessanta e Settanta, in cui il ritorno dei neri americani, impegnati in una durissima battaglia per i propri diritti, verso la cultura africana veniva esaltato anche dall’aspetto estetico che tornava a guardare alle radici. L’importanza di quelle immagini ha avuto un’enorme influenza sulla percezione della portata storica di quanto stava avvenendo. Dove gli anni Sessanta avevano costruito le fondamenta per un’esplosione della black music, non solo più come musica di intrattenimento (vedi le facili canzoni pop soul della Motown Records), gli anni Settanta rappresentarono la consacrazione artistica e creativa di quella che era diventata una vera e propria scena indipendente, con artisti che incidevano album epocali, con parole e messaggi sempre più netti e chiari, gestivano la propria musica e i patrimoni economici ad essa connessi, non più esclusivamente in mano all’industria discografica tradizionalmente bianca.
Bruce W. Talamon fu uno dei protagonisti di quegli anni, immortalando con fotografie di grandissima potenza ed efficacia quei momenti. Si laureò al Whittier College nel 1971, ma voleva solo diventare un fotografo professionista. Soprattutto da quando portò la sua macchina fotografica Pentax a un concerto di Miles Davis a Copenaghen. Autodidatta, senza nessun retaggio alle spalle nell’ambito, trovò lavoro in California e nel 1972 fece una delle sue prime esperienze al mitico festival Wattstax di Los Angeles (con protagonisti come Isaac Hayes, Staple Singers, Rufus Thomas, Albert King, tra i tanti). Fu lì che incontrò Howard L. Bingham, fotografo e biografo di Muhammad Alì, che divenne il suo mentore. Proprio dal pugilato Talamon ha assorbito parte del suo stile: «Ti appoggi al bordo del palco e vieni inzuppato dall’artista sudato sopra di te. Era come essere a un incontro professionistico dei pesi massimi, ma invece del sangue e delle viscere che volavano era solo un buon vecchio sudore».

COLLABORAZIONI
Bingham lo presentò a Regina Jones, editrice del giornale Soul, rivista che presentava i migliori artisti afroamericani in circolazione. Da qui incominciò una carriera che lo portò al cospetto di nomi tutelari della black music come Stevie Wonder, Marvin Gaye, Parliament/Funkadelic, James Brown, Al Green, i Jackson 5, Earth, Wind & Fire, Donna Summer, Chaka Khan, Gil Scott-Heron, Diana Ross e al lavoro per riviste come, oltre a Soul, Ebony e Jet, collaborando anche con molte etichette discografiche.
«I musicisti neri adoravano Soul e amavano molto anche la rivista Jet. Questo è successo prima che Rolling Stone si degnasse di pensare di dare davvero spazio ai musicisti neri. Questi artisti neri stavano dicendo tante cose, stavano parlando. Hanno capito il potere della loro posizione. Mi piacerebbe sperare che alcuni dei nostri musicisti e celebrità più giovani possano pensarci e rivalutare quei tempi. Non avevano paura di chiedere a fotografi neri o scrittori neri di intervistarli. In effetti, sono stati determinanti per ottenere spazi per la musica nera nelle case discografiche. All’improvviso c’erano dei dirigenti neri lassù, nei posti che contano. Gli O’Jays, Barry White e Donna Summer dicevano, “Dove sono i neri?”. Era tutto molto problematico. Il giornale Soul mi ha messo in una posizione in cui i dirigenti di queste case discografiche mi vedevano e dicevano, “Beh, chi è quello?”. Poi all’improvviso ricevo una chiamata dal loro direttore della pubblicità che dice, “Vogliamo che tu faccia una session con Bill Withers”».
I suoi ritratti sono sempre semplici, diretti, intensi, minimali, ma restituiscono il climax dell’epoca, vibrante e costantemente rivolto verso un futuro e prospettive migliori. Oltre a una recente mostra a Los Angeles l’opera di Bruce W. Talamon è raccolta nel libro Soul R&B Funk. Photographs 1972-1982 (Taschen).
«Ricordo molto bene la maggior parte di quello che stavo facendo, di quello che stava succedendo. Ho sempre detto ad altri fotografi, soprattutto giovani, “Fate attenzione. È tutto intorno a voi, tutte le cose che pensate possano funzionare, anche quelle che a volte credete che debbano finire nel cesso. Dovete pensare restando fermi sui vostri piedi. E poi andate sicuri, la foto c’è!”». Prosegue Talamon, in una delle tante interviste con cui ha approfondito il contenuto del suo lavoro e del libro: «Ho deciso di creare un documento visivo, non solo qualcosa da far rimanere nel tempo ma che avrebbe potuto istruire. Qualcosa che mettesse le facce ai nomi. Questo ho cercato di fare. E questo viene ovviamente direttamente dai cantastorie, direttamente dalla tradizione africana dei griot, non è niente di nuovo. A un certo punto della mia vita stavo cercando di diventare avvocato. Ma mi è piaciuta l’immediatezza dell’immagine visiva e l’immediatezza che riesce a rendere. In seguito ho sentito questa citazione da Eric Dolphy, il sassofonista jazz, che ha detto, “Quando senti la musica, è nell’aria. E un attimo dopo non c’è più. Non puoi mai più catturarla”. E mi piacerebbe pensare che forse a volte sono stato in grado di catturare momenti, momenti luminosi».

APPROCCIO UNICO
Il suo lavoro è proseguito successivamente alla fine degli anni Settanta a fianco di Bob Marley e Earth, Wind and Fire, che ha seguito in tour. Ma ha collaborato anche con la prestigiosa rivista Time, per la fortunata trasmissione Soul Train che proponeva tutte le novità relative alla black music, per serie televisive di successo come Charlie’s Angels, American Bandstand e film, Staying Alive, Beverly Hills Cops, Space Jam. Ha seguito il reverendo Jesse Jackson nelle elezioni del 1984 e Barack Obama, poi immortalato nel libro Barack Obama: The Official Inaugural Book. Talamon sottolinea un aspetto di importanza rilevante nel suo approccio alla fotografia: «Come mai sono l’unico che ha fatto queste foto? Tutti i fotografi di musica sapevano chi c’era in città a suonare, ma quello che sto dicendo è che i fotografi bianchi sarebbero usciti solo per i Jackson 5, per Diana Ross, ma non sarebbero mai andati a vedere i Whispers o Harold Melvin and the Blue Notes. Non erano al Crenshaw Palace per Billy Paul. Onestamente, non sarebbero mai andati a vedere Barry White fino a quando non ha inciso Ally McBeal. Era quasi come se qualcuno stesse dicendo che questi musicisti non fossero importanti. E non lo erano, per loro e per le loro riviste. Va bene, ma invece noi eravamo là tutte le sere. È così che mi sono guadagnato da vivere per almeno dieci anni, ed è stato un ottimo vivere. Sì, sono venuti a vedere Stevie Wonder, ma non hanno avuto Stevie Wonder come io ho avuto Stevie Wonder».
Talamon sottolinea un ulteriore importante aspetto del suo lavoro e del suo approccio alla fotografia: «Sono stato accusato molte volte di non sorridere molto sul lavoro. Devi trattare queste persone non come un amico, ma far loro sapere che sei qui per fare un lavoro. Ci sono un sacco di persone che se ne vanno in giro con le macchine fotografiche ma ci sono solo pochi fotografi al mondo».