Il debutto nel genere horror di Susanne Bier, Bird Box, dal momento della sua uscita su Netflix alla fine di dicembre è diventato un fenomeno mediatico per ragioni perlopiù slegate dal film in sé, e in primo luogo a causa di un successo molto superiore alle aspettative sulla piattaforma – che comunque aveva fatto una serratissima campagna pubblicitaria per lanciarlo. Un successo tale da spingere Netflix a contravvenire alle sue stesse linee guida condividendo i dati sullo streaming: sarebbero 45 milioni gli utenti che hanno visto Bird Box nella prima settimana – dati però impossibili da verificare con certezza – facendo quindi del «piccolo» horror di Susanne Bier (costato «solo» 20 milioni di dollari) il film Netflix di maggior successo sinora, un fatto questo confermato di recente anche dall’equivalente dell’Auditel statunitense, Nielsen ratings.

Ma Bird Box, nonostante il suo cast di peso – Sandra Bullock, John Malkovich e Sarah Paulson su tutti – o le belle musiche di Trent Reznor e Atticus Ross, non è all’apparenza un film da grandissimi incassi al botteghino tradizionale: è un horror soprattutto d’atmosfera, sulla falsariga dei successi di Get Out e in particolare di A Quiet Place, ma senza averne la forza o l’inventiva. Tratto da un romanzo di Josh Malerman del 2014, parte da premesse analoghe al film di John Krasinski, dove i «mostri» erano richiamati dal rumore: qui è attraverso la vista che dei demoni, ironicamente invisibili, penetrano in modo misterioso nella volontà degli esseri umani, spingendoli al suicidio o alla furia omicida nel caso dei malati di mente.

MALORIE, la protagonista interpretata da Sandra Bullock, è terrorizzata da una gravidanza indesiderata quando l’apocalisse si abbatte sulla terra costringendola nella classica casa con un gruppo di sconosciuti, tutti messi di fronte alle loro paure e ai loro traumi irrisolti. E proprio su questa dimensione psicologica punta Bird Box – il titolo viene da una scatola con dentro dei pappagallini, gli unici in grado di annunciare l’«arrivo» delle entità malvage che spingono al suicidio – che usa l’horror come metafora della sfida posta dalla maternità, della capacità tutt’altro che scontata di diventare madre.

Ma è una metafora priva di levità, sottolineata a ogni passo, a partire dal tracciato irrequieto del fiume su cui Malorie in cerca di salvezza è costretta a imbarcarsi con i suoi due bambini, gli occhi coperti da una benda, e che accompagna tutto il film in un continuo movimento fra il passato (gli eventi che l’hanno condotta fino a quel punto) e la disperata corsa verso l’ignoto a bordo di una canoa.

EPPURE Susanne Bier alle prese con la costruzione delle sequenze di tensione riesce, soprattutto nella prima parte, a creare un’atmosfera angosciante, debitrice più di tutto a Shyamalan e il suo E venne il giorno, non tanto per l’analogia della vicenda – l’epidemia di suicidi – ma per la capacità di dare forma alla paura lasciando il «mostro» nell’invisibilità, solo attraverso gli attori e il movimento della macchina da presa in quello che è uno scenario quasi familiare per lo spettatore, perché fagocita decine di riferimenti dentro e fuori dal genere horror e science-fiction.

Ma più di tutto, Bird Box con il suo successo – che difficilmente sarebbe stato eguagliato dal film sul grande schermo – getta una luce sulle nuove modalità di fruizione dei prodotti cinematografici, sulle strategie delle piattaforme streaming e sulla mutazione delle abitudini degli spettatori fuori dalla sala cinematografica.