Teoricamente un biopic musicale, ossia un film che parla della vita di una band o di un cantante, dovrebbe essere un facile successo al botteghino perché i fan dovrebbero riempire i cinema per seguire le vicende dei loro idoli. Elvis di Baz Luhrmann, per esempio, funziona perché la musica del Re Presley fa gran parte del lavoro e in più la regia ha stile ed è visivamente potente. Esistono però film biografici che mancano completamente il bersaglio. Cattive esibizioni, parrucche grottesche, trucco esagerato su attori che, pur non somigliando ai vari cantanti, li interpretano con enfasi da Bagaglino, sono alcune cose che hanno relegato nell’oblio molti biopic. Anche la sfortuna molte volte però gioca un fattore determinante. Tra i titoli che in pochi si ricordano ma hanno cercato fortuna senza riuscirci ci sono Great Balls of Fire! -Vampate di fuoco, ispirato alla vita e alla musica di Jerry Lee Lewis, e La bamba sulla breve carriera di Ritchie Valens, fallendo soprattutto per interpreti inadatti seppur all’epoca sulla cresta dell’onda come Lou Diamond Phillips o Dennis Quaid. Ci tocca perciò addentrarci, come fossimo parte dell’equipaggio dell’astronave USS Enterprise, «là dove nessun uomo è mai giunto prima», i film dimenticati sulle star della musica.

IL RE DEL ROCK
Elvis, il re del rock è l’unica pellicola di John Carpenter non di genere thriller, horror o fantascienza. Sembra che il regista fosse stato ingaggiato perché anche compositore delle musiche dei suoi film, una fama che lo precedeva dopo il magnifico score di Halloween. Così Anthony Lawrence, sceneggiatore per Elvis Presley negli anni Sessanta di 3 fusti, 2 bambole e… 1 tesoro, Paradiso hawaiano e Il cantante del luna park, decide di scrivere di suo pugno un tv movie sulla vita del re del rock. Tutto affidato all’estro di John Carpenter che, pur lontano dai suoi orrori, gira uno dei migliori biopic su un cantante. La pellicola debutta in tv il primo febbraio 1979 con lo slogan «The King Lives On!». In Italia a novembre dello stesso anno viene persino distribuito al cinema in una versione ridotta di mezz’ora, passando dai 150 minuti originali a 120, con un ritmo decisamente più brioso. Interpreta Elvis un giovane attore, Kurt Russell, che, solo due anni dopo, diventerà una leggenda del cinema con 1997 Fuga da New York, sempre diretto da Carpenter. A dire il vero la somiglianza tra l’attore e Elvis non è più né meno di quella di un mediocre cosplayer da salone del fumetto, ma la carica che ha l’interpretazione del nostro surclassano i difetti somatici del suo volto e delle vistose orecchie a sventola (incollate per non sembrare così pronunciate). Il bivio che Carpenter si trova davanti è: scegliere un cantante bravo ma incapace come recitazione o un bravo attore, stonato e per di più poco somigliante a Presley? Il regista punta sul talento di Russell e vince: vestito con l’originale Adonis, uno degli abiti più iconici del re del rock, l’interprete diventa un credibile Elvis, anzi è Elvis. A cantare tutte le tracce del film, eseguite in playback da Kurt Russell, è Ronald Dean McDowell Sr., conosciuto per la sua canzone del 1977 The King Is Gone, un tributo a Presley, una hit immediata in tutto il mondo. Per l’occasione il compositore registra 36 canzoni, ma solo 25 si possono ascoltare nella pellicola: le restanti 11 non sono mai uscite su nessun supporto. La colonna sonora comprende capolavori della carriera di Elvis come Mystery Train, The Wonder of You, That’s Alright Mama, Blue Moon of Kentucky, Shake, Rattle & Roll, Heartbreak Hotel e Love Me Tender. Anche in questo caso Ronald Dean McDowell Sr. è un perfetto imitatore vocale di Elvis tanto che sarà la voce di Presley anche in altri progetti cinematografici e televisivi come Elvis and the Beauty Queen del 1981, le miniserie Elvis and Me del 1988 e Elvis del 1990, compreso speciale della Showtime del 1997, Elvis Meets Nixon. Se il film di John Carpenter è magnifico, la restante filmografia di biopic sul re del rock è sconfortante. Il punto più basso è il già citato Elvis and the Beauty Queen diretto da Gus Trikonis, un ex ballerino, e interpretato da Don Johnson, futura star di Miami Vice. Tutto molto urlato come in una soap opera e altrettanto superficiale, la pellicola è scombinata, mal girata e soprattutto il suo attore protagonista è un terribile Elvis: troppo basso, una voce troppo debole, peggiorato da una parrucca nera fintissima, e un eyeliner, pesante. Il Chicago Tribune scrive: «Ogni volta che Don Johnson recita una battuta ti ritrovi a rotolare sul pavimento mentre ululi dalle risate». In poche parole, imbarazzante.

SCANDALO MADONNA
È il 1991 quando in tutte le librerie esce lo scandaloso Madonna Unauthorized, biografia non autorizzata della cantante Madonna, parto dello scrittore e giornalista Christopher Peter Andersen. Il ritratto della diva è spietato: una mediocre dal cuore freddo, senza talento e manipolatrice, disposta a tutto per fare carriera. Da queste pagine nasce Madonna: tutta la vita per un sogno del 1994 diretto da Bradford May, direttore della fotografia prestato alla regia. I fan lo bocciano, la stessa cantante si discosta talmente dal progetto da non collaborare neanche alla soundtrack che sarà cantata con cover della sua attrice protagonista, la meteora Terumi Matthews. «Alcune delle canzoni e delle performance sono state create appositamente per questo film», ci avvisa un cartello all’inizio della pellicola «Madonna non ha né partecipato né approvato questa presentazione».
Inutile dire che è proprio la parte musicale, quando entrano in scena canzoni cult come Like a Virgin, che il progetto fallisce in una sorta di grottesco karaoke movie nel quale le esecuzioni non rendono onore alla famosa Sig.ra Ciccone.
Se la regia di Bradford May è solo estetizzante, non più di un videoclip da MTV di fine anni Ottanta, il resto del film è piatto e incolore, capace di sprecare buonissimi attori come Dean Stockwell. Risalta solo la performance di Terumi Matthew, passionale e convincente, perfetta nella parte di una giovane donna con la fame di successo. «Prendo ciò di cui ho bisogno e poi vado avanti», urla la sua Madonna in una escalation di nefandezze da soap opera che vanno dalla prostituzione ad atti spietati verso i suoi avversari, tutto per fare carriera. Siamo davanti a una versione hardcore di Eva contro Eva di Joseph L. Mankiewicz prima che ci pensasse Paul Verhoeven con Showgirls: lo star system è spietato come un campo di battaglia. Terumi Matthew, malgrado lo scempio artistico di questa pellicola, ritornerà nei panni di Madonna in Bad as I Wanna Be: The Dennis Rodman Story del 1998, altro ignobile biopic questa volta su una star del basket. Ora, si legge su diversi siti, che ha cambiato mestiere e fa l’agente immobiliare. La fortuna di certo non le ha arriso.

MOSSA AZZARDATA
I Village People sono famosi in tutto il mondo per essere un simbolo della disco music degli anni Settanta e Ottanta. Il loro nome, letteralmente la gente del villaggio, si riferiva al Greenwich Village di New York, luogo frequentato dalla comunità omosessuale. Vestiti con pittoreschi abiti, archetipi dell’immaginario gay (il poliziotto, l’operaio, il nativo americano, il motociclista, il soldato e il cowboy) il gruppo vendette milioni di copie grazie a successi immortali come Go West, In the Navy, Macho Man, 5 O’Clock in the Morning e YMCA, hit diffusissime ancora oggi. All’apice del successo però fecero una mossa azzardata: decisero di partecipare a un film che parlasse non solo della loro musica, ma della storia, romanzata, della band. Questo fu Can’t Stop the Music, un insuccesso di ben 20 milioni di dollari, distrutto dalla critica e non amato dal pubblico. Uno dei peggiori incassi del 1980 anche se supportato da star come Cher o Hugh Hefner nel battage pubblicitario.
Non che la lavorazione fosse semplice. Nello stesso periodo il regista William Friedkin, famoso soprattutto per L’esorcista, stava girando un thriller cupo a tematica gay con Al Pacino, Cruising, che non piaceva molto alla comunità omosessuale. Così un gruppo di attivisti irruppe sul set con l’intenzione di distruggere tutto e impedire le riprese. Solo che, sfortuna volle, scambiarono i film: causarono danni al più innocente e spensierato Can’t Stop the Music.
L’idea per questo progetto che avrebbe dovuto unire la disco music con i musical classici alla Il mago di Oz con Judy Garland, venne al produttore e sceneggiatore Alan Carr che già era la mente dietro il successo di Grease-Brillantina di Randal Kleiser. Secondo i suoi piani Can’t Stop the Music avrebbe dovuto aprire nuove strade al genere, un cult paragonabile a La febbre del sabato sera. Si cominciò male però visto che la probabile star della pellicola, Olivia Newton-John, rifiutò il ruolo a favore di Xanadu, altro grande insuccesso musicale.
David Hodo, la maschera operaio dei Village People, dichiarò subito dopo l’uscita: «Quando ho letto la sceneggiatura per la prima volta, l’ho lanciata dall’altra parte della stanza. Pensavo fosse una totale merda. Non credevamo nel film, ma nessuno ci ascoltava».
Se però il film è uno scivolone che travolge anche il buon cast di future stelle come lo Steve Guttenberg di Scuola di polizia, la parte musicale è fantastica e, almeno sul piano visivo, il film è potente con molti balletti azzardati e coreografie di grande livello. Il problema di fondo, oltre la delirante sceneggiatura di Alan Carr, è la direzione fiacca di Nancy Walker, una grande attrice ma un’inesperta regista, alla sua prima e unica prova cinematografica alla veneranda età di 78 anni.
La soundtrack però, come detto, è irresistibile e conta pezzi classici del repertorio dei Village People, ma anche guest star come le Ritchie Family, altro gruppo, stavolta al femminile, creato da Jacques Morali, con pezzi dance furiosamente ritmati come Sophistication e Give Me a Break. Dietro lo pseudonimo di David London, autore dell’orecchiabile Samantha, si cela poi il cantante rock Dennis «Fergie» Frederiksen.
Tra le coreografie la migliore, e ancora ricordata con piacere dai pochi fan della pellicola, è quella sulle note di Millshake con il bianco predominante e i magnifici costumi ideati da Theoni V. Aldredge, premio Oscar per Il grande Gatsy del 1975. Questo e il momento YMCA in una palestra piena di uomini sudati che si allenano, sono grandi attimi di un film che trova come suo grande nemico Alan Carr, il suo ideatore.
Quello che deluse tutti gli estimatori dei Village People furono probabilmente due fattori: l’eterosessualità insistita della pellicola con ripetuti bikini dell’attrice Caitlyn Jenner e la figura marginale del gruppo, inseriti come sfondo in una banale commedia sentimentale, qua e là ritmata dalla loro magnifica musica. In più il personaggio di Steve Guttenberg era mutuato su Jacques Morali, dichiaratamente gay, ma qui convertito in un musicista con il pallino per le donne. Dopo Can’t Stop the Music, Allan Carr si buttò su Grease 2, anche stavolta un successo sicuro che si rivelò un altro mostruoso flop. I tempi della brillantina erano finiti.

CLASSICHE ECCEZIONI
Fallire con la biografia di un musicista d’epoca è difficile soprattutto quando come modello si hanno già storie fantastiche che aspettano solo di essere trasposte su grande schermo. Impossibile dimenticare l’Amadeus di Milos Forman del 1985, lo sfortunato Noi tre di Pupi Avati del 1984 o L’amata immortale del 1994 di Bernard Rose. Sono film che hanno incendiato la critica e reso ancora più romantiche le vite dei vari compositori come Mozart e Beethoven. Certo le eccezioni esistono, come non citare l’atroce Angeli senza paradiso del 1970, diretto da Ettore Maria Fizzarotti, in cui Al Bano Carrisi interpreta con enfasi esagerata Franz Schubert? Si può però controbattere che le ambizioni in questo caso erano basse, né più né meno di un musicarello come Nel sole o Champagne in paradiso, pellicole usa e getta che solo casualmente hanno attinto dalla musica classica.

UN VIOLINO STONATO
Il peggior biopic però dedicato a un compositore è senza dubbio Paganini di e con Klaus Kinski, attore grandissimo, genio pazzoide, indisciplinato anarchico alla sua prima e unica regia. Questa è la storia di come il suo estro senza freni riuscì ad essere peggiore, più confusionario e indigesto di un Al Bano e Romina Power sulle orme di Schubert.
Kinski e Paganini sono stati due menti incredibili, dotati di un talento in campi diversi ma eccezionale, unico, senza paragoni. Il modo di suonare del compositore era anticonvenzionale, con un tripudio di toni alti e uno stile tutto suo, dove spiccano il pizzicato e lo staccato: tecniche innovative che gli hanno consentito di dare forma a nuove sfumature e vibrati intensi. Sorprendente fu la sua capacità di accordare e riaccordare il violino ogni volta, suonando anche un’intera melodia su un’unica corda.
Kinski rivede in Paganini, nei suoi eccessi di vita, se stesso, e cerca disperatamente questo progetto fin sembra dagli anni Cinquanta, senza successo. L’occasione gli viene data da una produzione italiana con a capo Augusto Caminito che vuole a tutti i costi il divo dei film di Herzog, il folle genio di Fitzcarraldo, di Cobra Verde, di Aguirre, furore di Dio. Kinski non è vergine dei nostri film: ha interpretato molti western, qualche horror e si è ritagliato la fama di una persona ingestibile, rissosa, a tratti sadica. Il primo progetto cui partecipa è Nosferatu a Venezia, interpretato, co-diretto e folleggiato dallo stesso attore che non accetta il classico look del vampiro, ma impone, capriccioso dei lunghi capelli e l’assenza di dentoni, lo stesso aspetto che avrà in Paganini. Il primo progetto è un disastro nel quale lievitano i costi, i registi vengono licenziati e la trama stravolta senza più avere senso.
Non meglio sarà appunto Paganini che vede il talentuoso Kinski suonare il violino con la mano sinistra quando il compositore genovese era destro, fregandosene di ogni attinenza storica e della sceneggiatura, in una spasmodica ricerca dell’arte attraverso la musica che lo porta a stuprare lo strumento, a tagliarsi davvero e molto altro. Tutto eccessivo, con i dialoghi ridotti all’essenziale, con il modello Herzog che è sempre dietro l’angolo ma un grande attore non è per forza anche un grande regista. Quando Caminito capisce che il film probabilmente non finirà mai, strappa dalle mani del suo autore il progetto e lo monta alla meglio. Klaus Kinski partecipa alla presentazione del film a Cannes solo per ricordare alla stampa che «quello schifo» non è un’opera sua. Paganini ne esce mortificato, Kinski pure, a fare una bella figura sono solo le musiche del maestro Salvatore Accardo, soprattutto il Concerto per violino e orchestra n. 1 in mi bemolle maggiore, Op. 6, eseguito con il supporto della London Philharmonic Orchestra e del musicista svizzero Charles Dutoit.
Paganini di Klaus Kinski è oltre il brutto, è il Joan Lui di un genio che non può essere contenuto neppure da se stesso: immontabile, infattibile, una masturbazione uscita per miracolo divino al cinema e presto dimenticata in passaggi tv notturni.
Difficile pensare che, da un tale disastro, si sarebbe potuto ottenere un’opera interessante. Bernard Rose invece dimostra il contrario girando, nel 2013, un biopic su Paganini eccezionale. Il violinista del diavolo, a quasi vent’anni dall’eccellente L’amata immortale, è una biografia intensa, appassionata e romantica, che coniuga la passione amorosa a quella per le note. Una colonna sonora d’eccezione fa la parte del leone, mixando gli originali assoli di Niccolò Paganini con classici inediti e contaminazioni di musica pop, curata interamente dallo stesso protagonista, il musicista David Garrett, e dal compositore Franck van der Heijden. Le composizioni originali del maestro quindi vengono attualizzate, ma non stravolte, rielaborate con quel gusto post moderno che il Paganini di Kinski cercava non trovandolo mai, peccando di quell’hýbris che portava alla miseria molti eroi greci. D’altronde Garrett afferma: «Qualunque confronto con Paganini è fuori luogo. Lui ha rivoluzionato lo strumento, come ha fatto la Ferrari con le automobili. Per me, sin dall’infanzia, è stato un mito, un’icona irraggiungibile».